Draghi? Diagnosi giuste, terapie deludenti
Che cosa ha scritto Mario Draghi sul Financial Times. Il commento di Liturri

Che cosa ha scritto Mario Draghi sul Financial Times. Il commento di Liturri
Ormai Mario Draghi ha smesso di sorprenderci. Da quando non riveste più incarichi istituzionali, sono sempre più frequenti e articolati i suoi interventi per spiegarci che il cielo è azzurro e l’erba è verde.
Dopo il discorso di La Hulpe («…Abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale prociclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale…»), oggi è stata la volta di un editoriale sull’autorevole Financial Times in cui sostiene la necessità di un «cambiamento radicale» in tutte le scelte di politica economica che hanno condotto la Ue ad essere quello che è: il campione mondiale di burocrazia, regolamentazione e debolezza della domanda interna, al punto che il mercato interno (vanto della UE) perde i pezzi.
Omette sempre di aggiungere un essenziale e decisivo dettaglio: lui, negli ultimi 30 anni, ha ricoperto incarichi di responsabilità crescente in tutte le istituzioni nazionali e sovranazionali che avrebbero dovuto riconoscere la dannosità di quelle scelte e porvi rimedio. Da economista e poi da direttore generale del Tesoro, dagovernatore della Banca d’Italia, da Presidente della Bce, da Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana, aveva tutto il tempo, la visibilità e la capacità di incidere per mettere in pratica alcune, spesso banali, analisi alla portata anche di qualche studente di economia nemmeno troppo sveglio. Per non parlare di decenni o secoli di elaborazione dottrinaria. Invece, allineato e coperto e spesso in prima linea sul fronte opposto. Come tristemente documentato da quella ormai storica lettera firmata nell’agosto 2011 e indirizzata al proprio Paese.
Ogni volta Draghi aggiunge dei tasselli all’interno della cornice in cui da qualche tempo è solito muoversi.
Questa volta si concentra sulle barriere interne che frenano gli scambi intra-UE e su tutto il groviglio regolatorio che, secondo lui, sono molto più dannosi dei (per il momento solo ipotizzati) dazi. Secondo il Fondo Monetario Internazionale quei fattori equivalgono a dazi del 45% sui prodotti e del 110% sui servizi. Più barriere riducono le dimensioni del mercato in cui si opera e quindi il livello degli scambi tra Stati membri è meno della metà di quello registrato tra gli Stati USA.
Peccato che il confronto con gli USA trascuri la barriera più importante e ineliminabile: la lingua. Un barbiere o un consulente finanziario dell’Illinois può andare ovunque, un Lettone potrebbe avere qualche difficoltà in più se andasse a Lisbona, Malta o Nicosia (esempi a caso). Forse per questo motivo Draghi non fa nemmeno un esempio di quali siano queste fantomatiche “barriere interne”.
Proseguendo, Draghi fa correttamente notare che l’eccesso di regolamentazione ha danneggiato proprio uno dei settori, quello digitale, più promettenti in termini di crescita. Ancora una volta, però, obiettiamo che si tratta di danno auto-inflitto, non un asteroide caduto dalla volta celeste.
Se il mercato interno non offre particolari vantaggi, anzi è soffocante, giocoforza la Ue è diventato un campione del commercio internazionale, mostrando un’inusuale apertura agli scambi, beneficiando della globalizzazione. Con l’esito paradossale, denunciato da Draghi, che è diventato più facile e profittevole commerciare con il resto del mondo che con i Paesi limitrofi. Se c’era da intonare il de profundis per il mercato interno, Draghi c’è riuscito benissimo.
Oltre a questi fattori dal lato dell’offerta, la UE è frenata, secondo Draghi, dalla «tolleranza verso la debolezza della domanda interna» (consumi e investimenti), ai minimi in proporzione al PIL tra tutte le economie avanzate. Verrebbe da chiedergli “tolleranza” da parte di chi, quando non di tolleranza si è trattato ma di esplicito perseguimento di un modello di sviluppo basato su quella debolezza. Ovviamente quel gap di domanda non ha potuto che trasformare l’elevata apertura al commercio internazionale in altrettanto elevato surplus della bilancia commerciale.
E qui arriva il passaggio più significativo. Draghi ci fa sapere che da questa debolezza della domanda è scaturita la stagnazione della produttività. Nella disputa fra le cause della produttività, Draghi prende posizione e ci fa sapere che senza consumi e investimenti, la produttività non aumenta. Noi, nel nostro piccolo, avevamo intuito che solo se la fabbrica è piena di ordini e i macchinari girano a mille, la produttività aumenta e si generano risorse per ulteriori investimenti che generano ulteriori miglioramenti di produttività.
Ora pare che anche Draghi sia d’accordo.
È prevalentemente la domanda che causa la produttività che è quindi una variabile endogena, non esogena. Un circolo virtuoso sempre negato dagli “offertisti”.
Ma, di ammissione in ammissione, Draghi “risale per li rami” e riconosce pure che il più grave freno alla domanda è arrivato dall’impostazione restrittiva delle politiche dei bilanci pubblici. Gli Usa hanno speso, noi no. Infatti “scopre” che dal 2009 al 2024 il governo USA ha generato un deficit primario pari a oltre 5 volte quello dell’eurozona (14.000 miliardi contro 2.500). Numeri lasciati cadere senza fare una piega, come se lui fosse stato su Marte e in quegli anni.
E allora qual è la soluzione? Semplice, secondo lui. Meno barriere e regole dal lato dell’offerta, per consentire la crescita dei settori più innovativi, e rilancio della domanda interna attraverso un “uso proattivo” della politica di bilancio a favore di investimenti ad elevata produttività. Come non averci pensato prima?
Ma ecco che arriva la “supercazzola” finale. Per fare tutto ciò “«ci vuole un cambio di mentalità». È ora di smetterla di guardarsi l’ombelico (politica di bilancio restrittiva, barriere e regole), coltivando l’orticello dei nostri Stati nazionali. Queste scelte non ci hanno portato nulla di quanto promesso.
«Servono cambiamenti radicali», conclude. Ovvero, ci permettiamo di dedurre, qualcosa di simile agli Stati Uniti d’Europa, visto che è la mentalità “nazionale” l’ostacolo. Tutti uniti in «un’unica catena degli affetti».
Siamo alle solite. La diagnosi è giusta, ancorché tardiva, la terapia è sempre quella: più UE. Cioè l’origine di buona parte dei problemi che lui denuncia. Come nel Medioevo, quando il salasso non funzionava era perché ce ne voleva di più.