Perché la Russia non vuole la pace
L'intervento di Francesco D’Arrigo, direttore dell'Istituto Italiano di Studi Strategici "Niccolò Machiavelli"

L’intervento di Francesco D’Arrigo, direttore dell’Istituto Italiano di Studi Strategici “Niccolò Machiavelli”
La Russia non è ancora interessata a porre fine alla guerra in Ucraina, perché non ha ancora raggiunto tutti i propri obiettivi strategici e a causa delle conseguenti ripercussioni socio-economiche interne, che minaccerebbero il regime ed i rapporti di forza tra le fazioni in lotta in seno al Cremlino. Già prima dell’avvio dell’”Operazione Militare Speciale” abbiamo visto come il fallimento dei negoziati con l’Ucraina, che la propaganda e la disinformazione russe attribuiscono all’allora premier britannico Boris Johnson, fu invece dovuto al fatto che il presidente Putin non voleva raggiungere alcun accordo con Kyiv, considerata una facile preda da sottomettere in pochi giorni. La leadership del Cremlino, che nella sua composizione e funzione è diventata sempre più simile al Politburo della defunta Unione Sovietica, teme che la fine della guerra con l’Ucraina possa portare a conseguenze simili a quelle del 1989, quando il rientro dei militari sovietici dalla guerra in Afghanistan ha avuto conseguenze sociali dirompenti. Molti veterani, non riuscendo a reintegrarsi nella vita civile, contribuirono a destabilizzare la società russa, provocando un’impennata della violenza e della criminalità, dell’alienazione sociale, della povertà ma soprattutto dell’attivismo politico nelle società post-sovietiche. Molti veterani diventarono attivisti critici del governo, partecipando a proteste e sostenendo gruppi nazionalisti e di opposizione, contribuendo all’instabilità sociale e politica della Russia degli anni Novanta. Uno scenario che il Cremlino teme si possa ripetere con i veterani della guerra in Ucraina, anche perché l’esercito russo ha arruolato un gran numero di detenuti che scontavano pene detentive per gravi reati, ed il rientro di questi individui rappresenterebbe sicuramente un problema di sicurezza interna.
L’economia russa vicina al crack sta minando la stabilità delle imprese
L’economia russa, oramai esclusivamente focalizzata a sostenere lo sforzo bellico in Ucraina, nel 2024 ha visto un’inflazione vicina al dodici per cento che mina la stabilità sociale, mentre le spese per la difesa sono lievitate fino alla cifra monstre equivalente a 108 miliardi di dollari: il triplo del 2021, l’ultimo anno pre-invasione, e il 70% in più rispetto a quanto previsto per il 2023. Un’economia, che grazie al sostegno cinese ed alle violazioni delle sanzioni di alcuni Paesi occidentali, spiega in parte anche la crescita del PIL russo registrata nel breve termine, ma che ne evidenzia lo squilibrio macroeconomico dovuto all’inflazione e all’alto costo del denaro, uno degli aspetti chiave della grave crisi che attanaglia l’economia e, di conseguenza, il destino della Russia. L’estrema difficoltà produttiva di beni di consumo primario sta costringendo Mosca a fare scelte molto difficili, che oltre a tagliare sussidi e welfare, fanno presagire una difficilissima ripresa economica senza l’interruzione delle sanzioni economiche ed il ritorno degli investimenti occidentali.
Per questi motivi il presidente Putin sta utilizzando la riabilitazione che gli ha offerto il suo amico presidente-tycoon e trarne il massimo vantaggio per aumentare il suo gradimento e fiducia interna, enfatizzando l’ottenimento di una insperata vittoria diplomatica e politica. Riabilitazione che vede tra le richieste principali nella recente ripresa del dialogo tra Stati Uniti e Russia, il ritiro delle sanzioni economiche e la ripresa degli scambi commerciali con gli Usa, come riferito dal presidente Trump dopo una telefonata con il presidente Putin il 12 febbraio, nonché dai successivi contatti tra il ministro degli Esteri Sergey Lavrov e il senatore Marco Rubio e l’assistente presidenziale russo Yuriy Ushakov con il rappresentante Michael Waltz. Un momento chiave di questo rinnovato impegno è stato l’incontro di alto livello tra Stati Uniti e Russia tenutosi a Riyadh il 18 febbraio, particolarmente vantaggioso per Mosca. Washington ha riconosciuto e accettato le argomentazioni della Russia sulle cause profonde della crisi ucraina, ovvero l’espansione della NATO e la protezione delle popolazioni russofone in Ucraina. In risposta, l’amministrazione presidenziale russa, sotto la guida di Yuriy Ushakov, ha formulato una serie di richieste da presentare ai partner internazionali, come prerequisiti per una risoluzione del conflitto.
Le condizioni della Russia per i negoziati di pace
Premesso che ad oggi la Federazione Russa non ha alcun interesse e quindi nessuna intenzione ad un “cessate il fuoco”, sta adottando una strategia dilatoria per prendere ulteriore tempo e non scontentare il presidente Trump, ponendo delle condizioni che dimostrano l’intenzione di non arretrare di un millimetro rispetto a quelle per le quali ha invaso l’Ucraina. Quindi, trascinerà le trattative senza concedere accordi di cessate il fuoco temporanei e brevi, a meno che non siano stati stipulati accordi concreti per una soluzione definitiva, che per la Russia prevedono:
- il riconoscimento delle rivendicazioni territoriali – riconoscimento internazionale dell’annessione russa della Crimea, di Sebastopoli, delle Repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk, delle regioni di Kherson e Zaporizhzhya, e di quelle che nel frattempo riuscirà a conquistare;
- abolizione delle leggi adottate dall’Ucraina a seguito dell’invasione russa – porre fine alle politiche post-2014 volte a sopprimere la lingua, la cultura, i media, le tradizioni e il cristianesimo ortodosso russo;
- illegittimità delle attuali istituzioni ucraine – “Illegittimità” del presidente Zelensky e del divieto da lui stesso imposto di negoziare con la Russia (in vigore dal 30 settembre 2022). La Russia propone di tenere simultaneamente elezioni presidenziali, parlamentari e locali in Ucraina, con la partecipazione di tutti i partiti politici;
- garanzie di sicurezza (per la Russia!) – smilitarizzazione e “denazificazione” dell’Ucraina e ritorno ai termini delineati nell’Accordo di Istanbul. Eliminazione delle minacce alla sicurezza della Russia derivanti dalla continua espansione della Nato, che Mosca considera una violazione degli accordi precedenti e un’invasione diretta della sua sfera di influenza geopolitica; divieto di dispiegamento di forze straniere – vietare la presenza di personale militare straniero in Ucraina, anche sotto le insegne di Onu, Ue, Osce o altre coalizioni alleate;
- de-escalation occidentale – gli Stati Uniti, la Nato e l’Ue devono abbandonare l’idea di raggiungere la “pace attraverso la forza” o la “sconfitta strategica” della Russia. Questo include l’interruzione delle spedizioni di armi, la condivisione di intelligence, l’addestramento militare dell’esercito Ucraino e il ritiro delle sanzioni contro la Russia.
Il Cremlino sottolinea che Mosca accetterà un accordo di pace solo se tutte queste condizioni saranno soddisfatte. Tuttavia, i funzionari russi riconoscono in privato che soddisfare pienamente queste richieste porterebbe probabilmente ad un rifiuto dei negoziatori statunitensi e ad un’ulteriore destabilizzazione dell’Ucraina. La strategia è invece quella di presentare pubblicamente queste condizioni come un gesto di buona volontà, costringendo Kyiv a una difficile posizione diplomatica e delegittimare ulteriormente il presidente Zelensky. L’obiettivo è lasciare che le opzioni dell’Ucraina si restringano fino a rifiutare ulteriori concessioni, consentendo a Mosca di dichiarare l’indisponibilità dell’Ucraina a negoziare e giustificare il lancio di una nuova offensiva militare in un momento in cui le forze ucraine potrebbero essere meno preparate a respingerla, soprattutto in termini di equipaggiamento e rifornimenti.
Le condizioni poste dal Cremlino rappresentano l’ennesimo ultimatum che non ha nulla a che fare con la diplomazia. Non mirano alla pace, ma alla capitolazione dell’Ucraina.
L’unico modo per neutralizzarle è mantenere il sostegno internazionale e rafforzare la difesa dell’Ucraina e dell’Europa, ed al contempo esercitare la massima pressione diplomatica anche nei confronti di Washington.