Pause troppo lunghe? Ora il datore può licenziarti (legalmente)
Con una decisione di pochi giorni fa, la Cassazione invita i dipendenti alla cautela e a non esagerare con le pause, specie se si tratta di mansioni "in esterna"

Riconosciuto dalla legge e dai contratti collettivi, quello alla pausa durante l’orario di lavoro è un diritto che non può essere abusato, perché il rischio concreto è quello di vedersi infliggere – legittimamente – la massima sanzione disciplinare e dover abbandonare per sempre il posto di lavoro.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione affrontando un caso pratico non infrequente, ossia quello di chi tende a soffermarsi un po’ troppo a chiacchierare al bar con i colleghi di lavoro. Vediamo in sintesi la sentenza n. 8707 della Cassazione sezione Lavoro, emessa lo scorso 2 aprile, e scopriamo quali sono i poteri dell’azienda per fare luce sulle violazioni dei dipendenti e valutare l’eventuale licenziamento disciplinare.
La vicenda in sintesi
Il recente caso giunto all’attenzione dei giudici di piazza Cavour riguarda un dipendente con compiti di addetto alla raccolta e ritiro porta a porta di rifiuti urbani e con l’abitudine di fare frequenti e prolungate soste nei bar dei Comuni dove, di volta in volta, si trovava per l’esercizio delle mansioni contrattuali.
Smascherato da un’agenzia investigativa “assoldata” dall’insospettita società datrice di lavoro e, conseguentemente licenziato, l’uomo non si diede per vinto impugnando la decisione in tribunale. Tuttavia, sia in primo che in secondo grado, i giudici confermarono la correttezza della scelta aziendale, a fronte dell’accertata violazione degli obblighi di cui all’art. 8 del d. lgs. n. 66 del 2003 in materia di pause intermedie durante l’orario di lavoro. Al contempo l’uomo aveva violato anche l’arco temporale previsto dal proprio contratto collettivo e individuale di lavoro.
In sostanza, le frequenti e prolungate soste in vari esercizi pubblici e bar non erano compatibili con la prosecuzione del rapporto di fiducia con la società datrice. E ciò era lampante, secondo la ricostruzione dei fatti svolta dal giudice d’appello, tenuto conto – in particolare – della relazione investigativa che documentava le violazioni del lavoratore, dell’analisi dei GPS installati sui mezzi di raccolta dei rifiuti guidati dall’uomo – che hanno individuato frequenti soste – e di varie testimonianze.
Insomma, un quadro probatorio che inchiodava il dipendente – già bersaglio di richiami e provvedimenti disciplinari per gli stessi motivi – alle sue responsabilità, alla violazione dei principi civilistici di buona fede, diligenza e lealtà nel rapporto di lavoro e al suo ripetuto comportamento fraudolento. Di fatto l’uomo metteva a rischio il regolare svolgimento di un servizio pubblico di basilare importanza per tutti.
Violazione obblighi orario di lavoro, ecco quando i controlli aziendali sono leciti
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8707/2025, ha confermato la legittimità del licenziamento del dipendente che effettuava frequenti e prolungate soste al bar, facendosi gli affari propri durante l’orario di lavoro. Nella decisione spicca il punto di vista dei giudici di piazza Cavour, in merito al delicato tema dei controlli difensivi.
Sintetizzando la posizione della Cassazione, i controlli aziendali:
- anche con agenzia investigativa e a seguito di fondati sospetti, sono legali se mirati a verificare comportamenti del lavoratore qualificabili nella categoria degli illeciti penali o delle attività fraudolente e potenzialmente fonte di danno per lo stesso datore di lavoro;
- non sono legali se hanno a oggetto l’adempimento – o inadempimento – della prestazione di lavoro, in ragione del divieto previsto dallo Statuto dei lavoratori;
- possono anche essere svolti in modo occulto, senza che ciò vìoli il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti né i divieti previsti dalla legge 300/1970, a patto che non portino a un monitoraggio continuo dell’attività lavorativa e siano orientati alla verifica di azioni gravi e già sospettate.
Inoltre questi controlli, in quanto esercitati in luoghi pubblici, erano conformi alle regole generali sulla privacy e al GDPR e, conseguentemente, anche da questo punto di vista erano inattaccabili.
La tutela ampia del patrimonio aziendale
Nella decisione che ha messo la parola fine alla vicenda, la Cassazione ha anche ricordato che la tutela del patrimonio aziendale va intesa in senso ampio, estendendo – quindi – i poteri di controllo (anche investigativo) del datore di lavoro. Lo ha ribadito richiamando alcuni suoi precedenti giurisprudenziali – Cass. nn. 23985, 27610 e 30079 del 2024 – e spiegando che i margini per evitare il licenziamento si riducono ulteriormente.
In particolare, il patrimonio aziendale da tutelare va inteso non soltanto come l’insieme dei beni aziendali, ma anche come la propria immagine esterna, cosi come percepita dalle persone. E nel caso in oggetto, l’immagine aziendale rischiava effettivamente un grave danno, posto che l’uomo svolgeva – o avrebbe dovuto svolgere – attività di raccolta rifiuti porta a porta.
Anzi, a ben vedere, è confermata la correttezza del controllo investigativo soprattutto quando il lavoro è svolto fuori dai locali aziendali, in condizioni in cui è più facile sia sfuggire ai propri obblighi contrattuali, che danneggiare l’azienda.
Minimo etico e mancata affissione del codice disciplinare
La Cassazione ha colto anche l’occasione per sottolineare che, in presenza di violazioni di quello che in gergo è chiamato “minimo etico”, la mancata affissione del codice disciplinare non impedisce di infliggere il licenziamento, essendo comportamenti che il dipendente non può non intendere come lesivi del rapporto fiduciario con l’azienda.
Nella sentenza 8707/2025 sezione Lavoro, la Corte ha così fatto riferimento al suo solido orientamento per il quale la pubblicizzazione del codice disciplinare con affissione negli uffici:
non è condizione indefettibile dell’azione disciplinare, allorquando vi sia violazione del c.d. minimo etico, in quanto la funzione della pregressa previsione in un testo che sia affisso o pubblicato non è quella di fondare in assoluto il potere disciplinare.
In estrema sintesi, quando si tratta di violazioni di doveri fondamentali nel rapporto di lavoro – e ne è un chiaro esempio la violazione dell’orario delle pause – la mancata esposizione del codice disciplinare non può essere fatta valere in giudizio per contestare la legittimità del licenziamento.
Che cosa cambia
Con questa sentenza, la Cassazione ha confermato la correttezza della decisione dei giudici di merito ma – soprattutto – ha sottolineato ancora una volta che chi svolge un lavoro “in esterno” non può pensare di raggirare l’azienda, usando l’orario di lavoro per pause eccedenti i limiti legali e contrattuali e per farsi gli affari propri, al bar, in piazza o in qualsiasi altro luogo.
Anzi, buona fede, lealtà e diligenza debbono sempre caratterizzare il comportamento del dipendente che, invece, se ripete comportamenti come quello visto sopra, viene richiamato e sanzionato dall’azienda – e mette a rischio l’immagine aziendale – non potrà non accettare l’esito del licenziamento disciplinare.