Parliamo finalmente di carceri?

Cosa raccontano i numerosi suicidi della situazione nelle carceri italiane. Il taccuino di Guiglia.

Mar 23, 2025 - 09:46
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Parliamo finalmente di carceri?

Cosa raccontano i numerosi suicidi della situazione nelle carceri italiane. Il taccuino di Guiglia

Già più di due secoli fa Voltaire, filosofo illuminista, diceva che la civiltà di un Paese si misura dalle sue carceri. Il concetto è diventato una frase fatta che i politici ripetono a turno, eppure invano. Perché un altro visionario di un tempo a noi più vicino, Marco Pannella, che fu il leader storico dei radicali, trascorreva il giorno di ferragosto di ogni anno visitando le brutte prigioni del Belpaese. E denunciando l’intollerabile sovraffollamento dei detenuti. Che era ed è il naturale risultato del disimpegno istituzionale, cioè della generale incapacità dei governanti di attuare una politica carceraria. Fosse anche quella, oggi ancor più necessaria di ieri, di costruire nuovi e civili istituti, vista l’obsolescenza e l’incuria in cui versa gran parte delle strutture che dovrebbero dar seguito al meno citato degli articoli della Costituzione. Il 27, secondo il quale le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e devono tendere “alla rieducazione del condannato”.

L’esatto contrario della realtà, invece, tragicamente testimoniata dai 18 suicidi di detenuti in neanche tre mesi -un primato, addirittura- e 4 in soli tre giorni, come ricorda l’ultimo caso del detenuto senegalese di 69 anni che s’è tolto la vita nel carcere di Verona.

La voce del sindacato di polizia penitenziaria, che questa gravissima condizione denuncia da tempo, risuona nel deserto. Esiste financo un’analisi dettagliata sul fenomeno di chi decide di farla finita dietro le sbarre. Essi sono sempre più giovani e stranieri -specie nord-africani- con forte disagio psichico. Crescono pure le aggressioni al personale, 30 casi a settimana, “la più grave emergenza di tutti i tempi”, sottolinea Aldo Di Giacomo, il segretario del sindacato.

Dunque, si parla di una situazione fuori controllo da entrambe le prospettive di chi “vive” la vita del carcere: il suicidio dei detenuti e gli agenti aggrediti. Nessuno si salva, quando l’affollamento oltre ogni limite e la mancanza di figure professionali che possano cogliere in tempo il malessere di chi sta già male di suo prima che esploda, creano il cortocircuito umano e istituzionale.

Né si può trascurare il paradosso di che cos’è oggi la galera, dove spesso finiscono i presunti innocenti -lo siamo tutti, secondo Costituzione-, riconosciuti poi tali da sentenze definitive. E sempre meno ci vanno gli acclarati colpevoli di delitti anche gravi grazie agli infiniti cavilli e alla lungaggine dei processi che alimentano il senso di impunità e lo sconcerto della società.

Ce n’è quanto basta perché il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, prenda il problema di petto. Lo Stato ha il dovere primario di garantire la vita e la vita degna delle persone che ha solo e temporaneamente in custodia.

Ha il dovere di potenziare gli organici del tutto insufficienti. Ha il dovere di costruire e rinnovare le strutture all’insegna della civiltà e con percorsi che aiutino i detenuti a ricrearsi la famosa “seconda opportunità” nella loro esistenza.

Il suicidio è la cronaca drammatica di un fallimento annunciato.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova
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