Papa, fra Usa e Vaticano alti e bassi diplomatici: dopo il 1929 i rapporti tra Santa Sede e Washington aumentarono

Da Roosevelt in poi riflettori sui Papi, Kennedy guardava a Giovanni XXIII e alla Chiesa conciliare. Oggi il confronto-scontro è dato per scontato

Mag 11, 2025 - 05:57
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Papa, fra Usa e Vaticano alti e bassi diplomatici: dopo il 1929 i rapporti tra Santa Sede e Washington aumentarono

Roma, 11 maggio 2025 – Che il Vaticano rappresenti un soggetto della politica internazionale noi lo diamo oggi per scontato, tuttavia si tratta di un’acquisizione recente se consideriamo l’evoluzione dei rapporti tra l’altare di Pietro e il trono della «guida del mondo libero»: gli Stati Uniti d’America. Non bisogna infatti dimenticare che dal 1867 fino al 1984 gli Stati Uniti non hanno avuto rapporti diplomatici formali con la Santa Sede, per una legge del Congresso che vietava l’uso di fondi pubblici per intrattenere relazioni con il Papa. I motivi erano sia l’intolleranza papale nei confronti dei protestanti, sia la prospettiva della prossima fine del potere temporale. Questo non vuol dire che il Papa non abbia svolto negli anni successivi un ruolo «sentito» anche dal governo statunitense, tuttavia mancava il formale riconoscimento diplomatico.

Dopo il 1929 e il Trattato del Laterano, con il Papa tornato a essere sovrano di un piccolo Stato, la situazione cambiò significativamente: i rapporti aumentarono e si scambiarono messi e messaggi, pur senza il riconoscimento diplomatico formale. Franklin D. Roosevelt, ad esempio, guardava con interesse il lavoro di Pio XI per la questione sociale, trovando delle consonanze con il suo New Deal; con il segretario di Stato Pacelli, futuro Pio XII, i rapporti furono ancora più stretti arrivando a un viaggio di Pacelli negli Stati Uniti nel 1936 in forma ufficiale, pur senza lo scambio di ambasciatori. A Roosevelt faceva comodo il sostegno elettorale dei cattolici italiani e irlandesi, e soprattutto gli faceva comodo avere un orecchio ben aperto sulla politica italiana e sulle iniziative di Hitler, mediate dal governo italiano. Verso la fine del conflitto Pio XII fece pressioni sul governo statunitense per trovare una strada che ponesse termine alla guerra con la Germania per far fronte al pericolo del comunismo sovietico; ma il rappresentante speciale di Roosevelt presso il papato, Myron Taylor, fu irremovibile: resa incondizionata o niente.

Rapporti politici, quindi, ma non relazioni diplomatiche formali. Una situazione che caratterizzò anche i rapporti con Kennedy e Giovanni XXIII, e poi Paolo VI. Kennedy li vide entrambi, il secondo per solo pochi mesi. Ammirava il lavoro di Giovanni XXIII per una nuova Chiesa conciliare e Paolo VI, da parte sua, eletto dopo la morte di Giovanni nel 1963, non fece mancare parole di lode per il progetto politico della «nuova frontiera» kennediana e per «l’alleanza per il progresso», rivolta in particolare alle zone povere dell’America del Sud. Nulla però può uguagliare il rapporto stretto e continuo che vi fu tra Ronald Reagan e Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyla. Non è un caso che la riapertura formale delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Santa Sede avviene proprio nel 1984, durante la presidenza Reagan.

L’americano condivideva con Wojtyla il giudizio politico nei confronti del comunismo sovietico. Quando lo definì «l’impero del male» usò di proposito un registro religioso che sentiva comune con il giudizio netto del Papa dell’est. La crisi polacca, e la comparsa di attori come il sindacato Solidarnosc a Danzica, fornirono armi di propaganda sia a Reagan per portare avanti la sua crociata conservatrice sia al papa per stigmatizzare il «socialismo reale». Di fronte a questo tandem, anche la comparsa di Gorbaciov nel 1985 impallidiva: la guerra fredda finì con la celebrazione di un nuovo «Papa-re» che aveva sconfitto l’URSS, e un presidente orgoglioso che riconosceva al papa gran parte di questo merito.