Nuova legge elettorale. Meloni ci pensa, ma è dura. E il Pd: "Dialogo tardivo"
La premier valuta l’introduzione di un proporzionale con premio di maggioranza. L’auspicio di una riforma condivisa. Ma c’è il nodo dell’indicazione del leader.

Al Nazareno giurano di non saperne niente e di essere a conoscenza dei "pettegolezzi" sulla legge elettorale solo a mezzo stampa. Chissà se è vero. In realtà, anche se siamo lontani da una vera proposta, non si tratta solo di pettegolezzi: Giorgia Meloni sta effettivamente considerando da mesi di modificare quella attuale con una legge proporzionale che prevede un premio di maggioranza (alla coalizione che supera il 40-42% dei voti va il 55% dei seggi), senza collegi uninominali, ma con il nome del candidato premier sulla scheda e soglia di sbarramento del 3-5%.
A spingerla sono diverse considerazioni: intanto, se è vero che vuole varare entro la legislatura il premierato in modo da presentarsi agli elettori affermando "ve lo avevamo promesso, lo abbiamo fatto", è anche vero che il referendum slitterà alla prossima legislatura. E non per caso: una sua bocciatura prima delle elezioni, previste "tra maggio e giugno del 2027", come conferma Alberto Balboni (FdI), sarebbe apocalittica. Dopo il voto, invece, perderebbe buona parte del suo potenziale esplosivo. Fissare subito il principio del nome sulla scheda, serve non solo a prefigurare in larga misura la riforma, ma anche a ipotecare il risultato del referendum. Ancora più importante per Giorgia, ma non gradita ai suoi alleati, è la cancellazione dei collegi, che penalizzano il primo partito della coalizione, costringendolo a garantire rappresentanze sovrastimate alle altre forze rispetto alle percentuali reali. A FdI si può capire che l’ipotesi faccia gola, si può capire anche che Salvini e Tajani la vedano all’opposto. Infine secondo le simulazioni di via della Scrofa, con la legge attuale Pd, M5s, Avs uniti vincerebbero in buona parte del Sud. La premier è consapevole che non si ripeterà il miracolo del 2022 e non vede ragione per dar agli avversari un ulteriore vantaggio in Meridione.
L’auspicio di Meloni sarebbe quello di una legge condivisa con le opposizioni. Ma perché il Pd dovrebbe accettare? Sulla carta perché il premio di maggioranza obbligherebbe Conte a quella coalizione che intende fare, ma sbuffando fino all’ultimo. Senza contare che, per i collegi, vale a sinistra per il Pd quel che vale a destra per FdI. I limiti però sono giganteschi per Elly Schlein: l’obbligo di indicare il nome del premier renderebbe ineluttabili le primarie di coalizione che sono una componente essenziale della strategia di Conte che punta sulla sua popolarità e sulle divisioni del Pd, da cui potrebbero uscire non una candidatura, ma almeno due: Pina Picerno potrebbe scendere in campo per la minoranza. Insomma, la sola strada per cui l’ex premier pentastellato potrebbe raggiungere il traguardo che non ha mai perso di vista, essere il candidato premier dell’opposizione, è questa. "Siamo aperti al proporzionale, ma vogliamo vedere il testo", dice infatti Alfonso Colucci (M5s). Quanto al premio di maggioranza i sondaggi dicono che è molto più a portata di mano della destra che non della sinistra, e sul 55% dei seggi in Parlamento nella prossima legislatura il centrodestra conta per dare le carte per la scelta del nuovo inquilino del Quirinale. Scontata, dunque, la frenata del Pd: "Ora non ci sono le condizioni per dialogare sulla riforma elettorale", spiega Dario Parrini.
Certo bisogna fare i conti con la spada di Damocle che dal 2005 affossa i conati di legge elettorale: la costituzionalità. Per dire: l’ipotesi di un premio nazionale al Senato – che, per Costituzione, è eletto su base regionale – implica lo scoglio su cui andò a sbattere la legge di Calderoli nel 2005. Sarà una buona idea riprovarci? Insomma, la suggestione c’è (si lega anche al disegno di legge elettorale dei Comuni che cancella i ballottaggi ove si arrivi al 40% e che domani viene incardinato a Palazzo Madama), ma è ancora lontana dall’essere un’ipotesi realistica e precisa. E forse per questo dagli spalti della maggioranza non mancano le voci che mettono in guardia dal lasciare il noto per l’ignoto. In fondo il Rosatellum è sempre l’usato sicuro.