L’orologio della guerra: provocazioni, automatismi e il prezzo dell’obbedienza
Nel 2021, a un passo dalla guerra, l’Occidente ha scelto la via della provocazione invece di quella della prudenza. In tre diverse occasioni — a giugno, luglio e settembre — […]

Nel 2021, a un passo dalla guerra, l’Occidente ha scelto la via della provocazione invece di quella della prudenza. In tre diverse occasioni — a giugno, luglio e settembre — l’Alleanza Atlantica ha organizzato esercitazioni militari su larga scala in Ucraina, con il coinvolgimento di decine di nazioni, anche non membri dell’alleanza. Sea Breeze, Three Swords e Rapid Trident sono stati molto più che manovre simboliche: sono stati segnali, indirizzati tanto a Mosca quanto alle opinioni pubbliche occidentali, che la NATO considerava l’Ucraina già integrata nella propria sfera d’influenza militare.
Durante Sea Breeze, la presenza del cacciatorpediniere britannico HMS Defender nelle acque contese del Mar Nero, seguita dalle reazioni della marina russa e dalle dichiarazioni taglienti di Vladimir Putin, non fu un incidente ma l’emblema di una strategia deliberata: misurare il grado di tolleranza della Russia e ribadirne l’irrilevanza nei nuovi equilibri imposti da Washington e Londra. Il Washington Post, non certo un media sospettabile di simpatie filorusse, parlava apertamente di una mossa provocatoria della NATO.
L’Unione Europea, invece di interrogarsi sulle conseguenze di una crescente militarizzazione dell’Ucraina, ha scelto di restare in silenzio o peggio, di allinearsi ciecamente. Ma era chiaro, anche a osservatori imparziali, che la tensione stava raggiungendo un punto di rottura. I 100.000 soldati russi ammassati al confine tra marzo e aprile 2021 erano la risposta diretta a queste manovre occidentali.
Il punto cruciale, però, non è solo militare ma politico e sistemico. A partire dal 2014, come ha ammesso il Wall Street Journal nell’aprile 2022, la NATO ha formato ogni anno circa 10.000 soldati ucraini, rendendo Kiev di fatto un membro non dichiarato dell’Alleanza. L’“interoperabilità”, la fase che precede formalmente l’adesione e che prevede l’adozione di dottrine, armi e comandi NATO, era già in stato avanzato. L’ingresso ufficiale, al netto delle dichiarazioni politiche, era una mera formalità.
In questo quadro, l’argomento secondo cui l’allargamento della NATO a Nord, con Finlandia e Svezia, sia stato una conseguenza dell’aggressione russa del febbraio 2022 risulta profondamente fallace. È sufficiente rileggere il New York Times del 31 ottobre 2018, che denunciava i rischi della partecipazione finlandese all’esercitazione Trident Juncture, la più grande dai tempi della Guerra Fredda. Anche in quel caso, la decisione era stata presa prima dell’invasione russa dell’Ucraina. È la Casa Bianca a tracciare la rotta: gli alleati si adeguano.
La NATO ha infatti dichiarato l’intenzione di includere l’Ucraina già nel 2008, al summit di Bucarest. Ma la scelta vera risale al 1994, all’era Clinton, quando l’intera Europa orientale fu avviata verso l’inclusione atlantica. Quello che appare un processo democratico e consensuale, è in realtà il frutto di una gestione oligarchica del potere internazionale: le decisioni vengono prese a Washington, l’Europa esegue, e i popoli vengono consultati, quando va bene, solo a giochi fatti.
I casi di Svezia e Finlandia lo dimostrano in modo lampante. Quando la sinistra svedese ha proposto un referendum sull’ingresso nell’Alleanza, la premier Magdalena Andersson ha risposto con un secco no, adducendo motivi di “sicurezza nazionale”. Il presidente finlandese Sauli Niinistö ha fatto lo stesso. Nulla di nuovo. Quando il risultato è già stato deciso nelle stanze di comando, la democrazia diretta diventa un fastidio da evitare.
In realtà, il processo di allargamento della NATO è sempre stato trainato da élite politiche e tecnocratiche che considerano la volontà popolare un ostacolo. I referendum si evitano o si delegittimano. La narrazione che presenta l’adesione all’Alleanza come l’esito naturale di una volontà popolare è una costruzione propagandistica.
Il vero obiettivo dell’interoperabilità e delle esercitazioni congiunte è quello di assorbire progressivamente Paesi neutrali o non allineati all’interno del sistema militare atlantico, senza assumerne subito le responsabilità formali. Questo consente agli Stati Uniti di estendere la propria influenza militare e strategica senza dover affrontare immediatamente le conseguenze giuridiche e politiche dell’allargamento ufficiale.
Nel frattempo, l’Europa ha rinunciato a qualsiasi forma di iniziativa diplomatica autonoma. Il processo decisionale è stato ceduto a Washington, mentre i costi — economici, sociali, strategici — vengono scaricati sulle società europee. L’integrazione militare dell’Ucraina e la marginalizzazione della diplomazia hanno avuto un prezzo: quello della guerra.
Chi, oggi, difende l’idea che tutto ciò sia stato inevitabile o addirittura benefico, finge di non vedere la catena di provocazioni, automatismi e scelte miopi che ha condotto l’Europa sull’orlo del baratro. Un’intera classe dirigente ha preferito l’obbedienza all’analisi, la deferenza all’autonomia, il consenso atlantico alla responsabilità nazionale. E oggi, in un continente sempre più insicuro, militarizzato e politicamente impotente, il conto è appena cominciato ad arrivare.