Le radici psicopolitiche dello scontro fra Trump e Zelensky

Che cosa si dice e che cosa non si dice sull'inaudito battibecco tra Trump e Zelensky. Considerazioni a margine (non solo sullo scontro nello Studio Ovale). L'elzeviro di Battista Falconi

Mar 2, 2025 - 10:25
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Le radici psicopolitiche dello scontro fra Trump e Zelensky

Che cosa si dice e che cosa non si dice sull’inaudito battibecco tra Trump e Zelensky. Considerazioni a margine (non solo sullo scontro nello Studio Ovale). L’elzeviro di Battista Falconi

 

Tutti, in primis il sottoscritto in questo momento, parliamo dello scontro tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky diffuso su tutte le reti, i social e le emittenti con la stessa competenza e oggettività con cui commentiamo un rigore o un fuorigioco dopo il var. La stragrande maggioranza di noi si limita a guardare la linea o se il braccio era staccato dal corpo, soltanto qualcuno entra nel merito del confuso regolamento arbitrale. Allo stesso modo, prevalgono la tesi della trappola e la condanna per i modi arroganti di Trump ma una certa componente rileva come l’ospite si sia presentato alla Casa Bianca con una provocatoria naiveté: utile, al riguardo, il post di un traduttore che evidenzia come l’impreciso inglese dell’ucraino e le espressioni usate abbiano concorso a indispettire i media presenti e i leader di Washington, fino alla rissa verbale.

La contrapposizione delle opinioni è il metodo con cui cerchiamo di superare la difficoltà, anzi l’impossibilità di giungere alla verità. In questi frangenti l’AI che starebbe cambiando il mondo pare ci soccorra ancora poco e anzi metta in crisi proprio le competenze cui ci dovremmo affidare per chiarire, cioè quelle della mediazione, dell’informazione, della traduzione e dei produttori di contenuti. Non afferrando la verità, inseguiamo la realtà che è però un divenire sfuggente: in questo caso, per esempio, le dichiarazioni dei ministri italiani, dei leader europei e gli inviti al vertice odierno di Londra, che rendono chiaro solo quanto l’Europa segua le orme di Trump, sia per il peso determinante degli aiuti statunitensi in Ucraina sia perché l’obiettivo della pace non può non essere condiviso. Quello che imbarazza, in fondo, sono soprattutto i modi. Retoricamente tirarsi fuori da certi grovigli compulsivi è difficile, perché tentiamo di uscire dalla polarizzazione facendo leva sui torti della controparte, mentre il vero problema sono le ragioni, altrettanto distribuite.

Fini e mezzi, ragioni e torti rendono tutto opinabile perché non poggiamo su una base solida e condivisa. Una fragilità segnata, per limitarci al millennio in corso, dalla crisi economico-finanziaria del 2008 e dalla pandemia da Covid di cui ricorrono i cinque anni, che ci hanno abituato a non considerare più intangibili valori come progresso, libertà e pace. Oggi ci pare normale aumentare le spese per la difesa, rinunciare a dire ciò che pensiamo in nome di dittature woke, avere diminuzioni di benessere nel passaggio generazionale. È anche così che arrivano Trump, Zelensky e tutto il resto. Altri temi rilevanti come il nucleare, fonte utile per differenziare il pacchetto energetico ma con tempi di applicazione che rischiano di superare quelli dell’innovazione tecnologica, oppure chiacchiere minute come quelle sulla salute del Papa, dove età e condizioni sottopongono il decorso a inevitabili alternanze di peggioramenti e miglioramenti.

Utile ricordare la tesi sociologica nota come finestra di Overton, per cui accettiamo i cambiamenti più profondi abituandoci man mano, una sorta di mitridatizzazione in negativo, “killing me softly” per parafrasare una famosa canzone. La conoscono bene gli psichiatri infantili, che avvertono infatti come i traumi continuativi siano più difficili da risolvere di quelli causati da un abuso improvviso.