“La separazione delle carriere serve solo a indebolire la magistratura: è la rivalsa della politica sulle toghe” | L’intervento

La Camera ha approvato, in prima lettura, la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati, che è stata demagogicamente blindata con una procedura che non ha precedenti: si decide di modificare la Carta costituzionale respingendo a priori qualsiasi emendamento, qualsiasi modifica, così dimostrando quale concezione della democrazia e dello Stato di diritto abbia l’attuale […] L'articolo “La separazione delle carriere serve solo a indebolire la magistratura: è la rivalsa della politica sulle toghe” | L’intervento proviene da Il Fatto Quotidiano.

Mag 14, 2025 - 16:22
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“La separazione delle carriere serve solo a indebolire la magistratura: è la rivalsa della politica sulle toghe” | L’intervento

La Camera ha approvato, in prima lettura, la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati, che è stata demagogicamente blindata con una procedura che non ha precedenti: si decide di modificare la Carta costituzionale respingendo a priori qualsiasi emendamento, qualsiasi modifica, così dimostrando quale concezione della democrazia e dello Stato di diritto abbia l’attuale maggioranza parlamentare.

I sostenitori della riforma – e in primis Carlo Nordio, il peggiore ministro di Giustizia dell’era repubblicana e che ritiene la separazione delle carriere la madre di tutte le riforme e, come tale, la panacea di tutti i mali della giustizia – pongono a base della riforma i seguenti argomenti:

  • garantisce la “terzietà” del giudice e il “giusto processo” e renderà la giustizia più efficiente;
  • esiste in quasi tutti i Paesi europei;
  • evita quella sorta di consuetudine, di frequentazione e di commistione tra giudici e pm che potrebbe influenzare il giudizio e l’esito stesso del processo.

Dirò subito che si tratta di una riforma inutile e dannosa.

È inutile per un duplice ordine di motivi: il primo è che essa non serve assolutamente a nulla e che non porterà alcun beneficio, alcun miglioramento rispetto a quello che è il male endemico della giustizia e, cioè, la scandalosa durata dei processi, (con la rilevante, altrettanto scandalosa, ecatombe dei processi per prescrizione), che impone un serio intervento su un farraginoso, inceppato, perverso funzionamento del processo penale e sulla ormai secolare, strutturale, carenza di organico dei magistrati e del personale di cancelleria e ausiliario.

La riforma è, altresì, inutile perché una separazione delle funzioni giudicanti e requirenti è già in atto da tempo: infatti, oltre il 95% dei magistrati che assumono le funzioni di pm continuano, nel corso della carriera, ad esercitare le medesime funzioni sia perché l’incarico di pm è più appetibile e prestigioso, sia per le restrizioni imposte al cambio di funzioni dalle norme susseguitesi dal 2006 al 2022 che hanno irresponsabilmente limitato i passaggi da una funzione all’altra a uno soltanto nel corso della carriera.

Già oggi, quindi, il passaggio di funzioni riguarda un numero estremamente esiguo di magistrati tale da rendere superflua una modifica della Costituzione: nell’arco di cinque anni la percentuale di pm passati alle funzioni giudicanti è stata dello 0,83%, mentre dello 0,21% è la percentuale dei giudici divenuti pm, con una percentuale complessiva, pertanto, dell’1%, il che significa venti passaggi all’anno su circa diecimila magistrati.

Ma la riforma è anche dannosa perché porta al definitivo appiattimento – già in atto – delle funzioni del pm su logiche prossime a quelle di polizia (e che ha già provocato criticità). Si dà, in tal modo, vita ad un corpo, da un lato, compatto, monolitico, autoreferenziale di circa tremila pm, dall’altro separato, a sé stante all’interno del ruolo funzionale del pm, saldamente e pienamente integrato con l’intero apparato della polizia giudiziaria (Polizia, Carabinieri, Guardia di finanza che strutturalmente sono alle dipendenze dell’esecutivo) con il concreto pericolo di una mentalità propensa ad appiattirsi sullo schema mentale della polizia giudiziaria, vale a dire un accusatore di professione che finirà, inevitabilmente, prima o poi, ad essere inglobato nel ministero della Giustizia, così passando sotto il controllo dell’esecutivo, come avviene in tutti i sistemi che prevedono il pm separato dai come avviene in tutti i sistemi che prevedono il pm separato dai giudici

Ora, tutto ciò trova conferma proprio nelle parole del ministro Nordio il quale, nell’aula del Senato della Repubblica, ha così affermato: “Quanto al timore che il pm diventi un super poliziotto la risposta è assai semplice: nel sistema attuale esso è già un super poliziotto, con l’aggravante che godendo delle stesse garanzie del giudice egli esercita un potere immenso senza alcuna reale responsabilità. Oggi infatti il pm non solo dirige le indagini, ma addirittura le crea attraverso la clonazione del fascicolo, svincolata da qualsiasi parametro e da qualsiasi controllo che può sottoporre una persona ad indagini occulte, eterne, che creano disastri finanziari irreparabili, pensiamo a quante inchieste sono state inventate nel vero senso della parola”.

Ed, allora, se per Nordio il pm è già, oggi, un “superpoliziotto”, lo sarà ancora di più con la separazione delle carriere che lo svincola completamente dalla giurisdizione; ma questo non sembra preoccupare il ministro perché egli, nella sua prospettiva della separazione delle carriere e nel possibile prossimo avvento del “premierato forte”, forse ritiene che, prima o poi, la soluzione ineludibile sarà quella della previsione di un organo superiore che dovrà esercitare quel controllo – della cui mancanza oggi si duole il ministro – tale da impedire o bloccare quelle pericolose inchieste così poco gradite al potere esecutivo e a quella classe politica, inchieste che, inveritieramente e pretestuosamente, il Nordio definisce occulte, inventate, veri e propri abusi e disastri dei “super poliziotti”.

Ma la riforma è dannosa anche perché porta all’abbandono definito della “cultura della giurisdizione” – (che ha formato i migliori magistrati) – che, anzi, andava nuovamente sviluppata in aderenza a direttive europee (Carta di Roma del 17/12/2014) che auspicano l’intercambiabilità delle funzioni. Il ministro Nordio ha ironizzato sul concetto di “cultura della giurisdizione”, probabilmente non sa neanche in che cosa consista; la cultura della giurisdizione significa la valutazione rigorosa delle prove; confronto, discussione, dibattito nelle camere di consiglio; continuo e costante aggiornamento ed approfondimento giurisprudenziale e dottrinale, e, con specifico riferimento alle funzioni di legittimità, significa forgiare i principi di diritto che saranno applicati dai giudici di merito. Tutto questo rende il magistrato incline alla ponderazione, alla valutazione approfondita delle prove, a discernere gli indizi dalle prove, alla discussione, alla continua ricerca della verità, impedendo, così, che il magistrato diventi un pm a forte vocazione colpevolista.

Si è detto che negli altri Stati europei le carriere sono separate e si sono portati gli esempi della Francia, della Germania, dell’Inghilterra, della Spagna e del Portogallo. Ma la comparazione non aiuta i sostenitori della riforma se non nel senso opposto di rendere evidente che, laddove le carriere sono separate, il pm è sottoposto a potere esecutivo, con modalità e misure diverse, ma, comunque, in modo ineluttabile. In sostanza nei Paesi in cui esiste una separazione o, comunque, una netta distinzione dei ruoli tra giudici e pm, questi ultimi sono sempre sottoposti al controllo politico.

Per quanto riguarda specificamente la Francia, i sostenitori si sono dimenticati di dire che in tale nazione il corpo giudiziario è, comunque, unico e frequenti sono i passaggi di ruolo nel corso della carriera e che in Francia esiste la figura del giudice istruttore, titolare delle inchieste e che gode di grande autonomia e indipendenza.

Non solo, quindi, non serve la comparazione tra Stati, quanto non serve neanche il riferimento alla “terzietà” del giudice e al “giusto processo” che sarebbero garantiti dalla riforma. In realtà, la “terzietà” del giudice e il “giusto processo”, come è noto, sono previsti dall’articolo 111 della Costituzione a seguito della riforma costituzionale del 1999 e non è stata, sinora, avvertita la particolare esigenza costituzionale delle modifiche ordinamentali, oggi prospettate con la riforma.

Si è, infine, addotto il pericolo che la frequentazione e commistione tra giudici e pm potrebbe influenzare le inchieste ed il giudizio. Si è parlato, in proposito, di frequentazioni improprie (soprattutto tra pm e gip), di rapporti amicali, di incontri nel comune edificio, al bar, negli ascensori, eccetera. A parte la risibilità di tali argomenti, sarebbe veramente paradossale riformare, per tale motivo, addirittura, la Costituzione e separare le carriere. Per evitare queste frequentazioni, ritenute strumentalmente improprie, nel comune edificio, basterebbe la semplice soluzione di allocare gli uffici dei pm in edifici diversi e distanti da quelli dei giudici, evitando così qualsiasi possibilità di incontro tra di loro.

Nessuna, quindi, delle ragioni poste a sostegno della separazione regge ad una critica serena e obiettiva. La verità è che la riforma intende separare la magistratura, spaccarla in due e, dunque, indebolirla, così portando a termine quel tentativo di rivalsa nei confronti della magistratura da parte del potere politico che, da anni, insofferente al controllo di legalità, sostiene la supremazia del primato della politica sul primato della legge.

Quali, dunque, le conclusioni?

La maggioranza parlamentare, unita alla blindatura del testo normativo, porterà alla sicura approvazione della riforma che potrà essere bloccata solo dalla vittoria del “no” nel successivo referendum confermativo. Se ciò accadrà, il nuovo legislatore dovrà percorrere una strada totalmente opposta: mantenere l’attuale assetto della magistratura, così come previsto dalla Costituzione, adottando, però, una normativa che non solo elimini i paletti che ostacolano o impediscono il passaggio tra le funzioni, quanto obblighi tutti i magistrati a svolgere, per almeno dieci anni, funzioni giurisdizionali. Come ipotesi del tutto subordinata, si può pensare all’adozione del sistema francese ove, come si è detto, il corpo giudiziario è unico, i magistrati si distinguono tra giudicanti e requirenti, con possibilità di passaggi di ruolo nel corso della carriera. I pm dipendono dal ministro della Giustizia rispetto al quale sono gerarchicamente subordinati e “rappresentano gli agenti del potere esecutivo presso le giurisdizioni”. Viceversa, i magistrati giudicanti godono, come in Italia, della garanzia della inamovibilità e non possono essere trasferiti senza il loro consenso. L’adozione di tale sistema, rende, però, necessario prevedere, come in Francia, la figura del giudice istruttore, titolare delle indagini e delle inchieste, dotato di grande autonomia e della prerogativa della inamovibilità che lo mette al riparo da impropri e scorretti tentativi dell’esecutivo di interferire nelle indagini al fine di ostacolarle o bloccarle. Con la previsione del giudice istruttore vengono fortemente limitati i poteri investigativi del pm, da circoscrivere ai soli atti urgenti (che, peraltro, in buona parte possono o debbono essere svolti dalla polizia giudiziaria), riconducendo, così, la funzione del pm a quella propria insita nella sua stessa denominazione: “Procuratore della Repubblica presso il Tribunale”, “Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello e presso la Corte di Cassazione”, e, cioè, funzioni requirenti presso la magistratura giudicante. Questo sistema presuppone, ancora, un altro dato imprescindibile e, cioè, che, a differenza della Francia, venga mantenuto l’attuale principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, in maniera che la sua discrezionalità non sia affidata all’esecutivo, sì che si possa continuare a consentire che essa venga esercitata nei confronti di chiunque (ivi compresi esponenti politici, e i potenti di turno) e ciò in attuazione dell’articolo 3 della Costituzione, secondo cui “tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge”.

* l’autore è ex giudice della Corte di Cassazione

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