Il loro grido è la mia voce: poesie da Gaza

Si tratta di poesie crude, fortissime, non si poteva scrivere altro. Poesie di resistenza non di resilienza (che brutta parola aziendale!), perché si tratta di vittime di un assedio che […]

Apr 8, 2025 - 08:41
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Il loro grido è la mia voce: poesie da Gaza

Si tratta di poesie crude, fortissime, non si poteva scrivere altro. Poesie di resistenza non di resilienza (che brutta parola aziendale!), perché si tratta di vittime di un assedio che tanto rincorda il genocidio degli indiani d’America. Sono persone, scrittrici, scrittori, studenti, intellettuali, ingegneri, docenti, critici letterari, che avrei potuto frequentare; se fossi vissuta a Gaza avrei potuto avere un padre o un figlio morto o mutilato. Sono poesie nude in quanto testimonianza diretta della legge feroce per cui la guerra si abbatte sempre soprattutto sugli innocenti. E, queste persone, sotto assedio, avrebbero potuto smettere di scrivere, smettere di fare ogni cosa, come sempre pretende il diktat dello stato d’eccezione, dove ogni potere di fare ammutolisce, e resta l’impotenza. Qui vi è dolore, urlo, resistenza, mai impotenza. Nella prefazione Ilan Pappé – professore di Storia all’Istituto di studi arabi e islamici e direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter, autore di oltre una dozzina di libri tra cui il bestseller La pulizia etnica della Palestina (Fazi Editore, 2008), tradotto in quindici lingue, Palestina e Israele: che fare?, scritto insieme a Noam Chomsky (2015), La prigione più grande del mondo. Storia dei Territori Occupati (2022) e Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina (2024) (tradotto da Enrico Terrinoni) – scrive: “Quest’assedio si prolungherà fino a quando non avremo insegnato ai nemici passi della nostra poesia antica mahmud darwish, Stato d’assedio Noi palestinesi ci risolleveremo, l’abbiamo sempre fatto, anche se questa volta sarà più difficile. […] Nei versi abbandonati ritroviamo i semi di una violenza radicale, intenzionale, istruita e diffusa. A tale brutalità la poesia risponde come può, con la sua unica altra voce, per ritornare ferita alla sua casa. La casa è la misura della loro letteratura, dimensione della stessa mancanza. Occorre qui ricordare che il sostantivo arabo baīt (come l’ebraico bayt) significa, al tempo stesso, il verso poetico e la casa. E proprio la casa si mostra quale prima ossessione: prigione nella prigione. Tra le mura di Gaza si avverte l’insinuarsi neoplastico dei droni comandati a distanza, si distingue – come un grido acuto – quello scarto tra la vita e la morte. Quasi a riscrivere un passo dei Vangeli, in una casa di Gaza a sera, tutti spezzano il pane perché sanno che quella, forse, è la loro ultima cena. […] Fare poesia a Gaza vuol dire farla – nell’impossibilità di un luogo – in ogni luogo possibile. Per questa ragione, gran parte dei testi che presentiamo è stata pubblicata in rete, per essere tradotta e diffusa. Tuttavia, per i poeti che scrivono da Gaza sembra non ci sia tempo neppure per l’odio. Quanto raccontano Hend Joudah, Ni’ma Hassan, Yousef Elqedra, Heba Abu Nada, Haidar al-Ghazali e Refaat Alareer non somiglia affatto a una guerra. La morte non si trova in trincea ma attende al mercato, sui marciapiedi, cade dal cielo e irrompe nell’intimità domestica.”

Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini, Leonardo Tosti scrivono nell’introduzione: “I testi di Hend Joudah, Ni’ma Hassan, Yousef Elqedra, Heba Abu Nada, Haidar al-Ghazali, Refaat Alareer sono stati scritti a Gaza e pubblicati in rete tra il 7 ottobre 2023 e dicembre 2024. Ad eccezione di Abu Nada (uccisa nell’ottobre 2023) e Alareer (ucciso nel dicembre 2023), le autrici e gli autori sono tuttora impegnati a sopravvivere all’assedio di Gaza.”

Prima di ogni poesia, pubblicata in duplice lingua, troviamo il nome, la data di nascita, la biografia dell’autore, le vicissitudini e i lutti, la strenua resistenza, la fede, l’amore per i figli, il desiderio che tutto questo dolore possa cessare. 

Hend Joudah

(1983)

Nata nel campo profughi di al-Bureij a Gaza. Ha scritto poesie, canzoni, racconti e diverse sceneggiature per documentari. Ha lavorato per Workers Radio a Gaza, ha prodotto e presentato il programma radiofonico Good Morning, Homeland per l’emittente radio al-Hurriya di Gaza. La sua prima raccolta di poesie è intitolata Nessuno se ne va sempre. Ha fondato e diretto la rivista «28 Magazine» di Gaza.

Cosa significa essere poeta in tempo di guerra?

Significa chiedere scusa,

chiedere continuamente scusa, agli alberi bruciati,

agli uccelli senza nidi, alle case schiacciate,

alle lunghe crepe sul fianco delle strade,

ai bambini pallidi, prima e dopo la morte

e al volto di ogni madre triste,

o uccisa!

Cosa significa essere al sicuro in tempo di guerra?

Significa vergognarsi,

del tuo sorriso,

del tuo calore,

dei tuoi vestiti puliti,

delle tue ore di noia,

del tuo sbadiglio,

della tua tazza di caffè,

del tuo sonno tranquillo,

dei tuoi cari ancora vivi,

della tua sazietà,

dell’acqua disponibile,

dell’acqua pulita,

della possibilità di fare una doccia,

e del caso che ti ha lasciato ancora in vita!

Mio Dio,

non voglio essere poeta in tempo di guerra.

***

Yousef Elqedra

(1983)

Nato a Khan Yunis, Gaza. Ha studiato Lingua e letteratura araba presso l’Università al-Azhar di Gaza. Tra i suoi ultimi lavori, tradotti in diverse lingue, segnaliamo la raccolta poetica Hidden in Interpretation (2014) e il diario The Dialects of Gaza (2024). Attualmente risiede a Gaza.

Posso scrivere una poesia

con il sangue che sgorga,

con le lacrime, con la polvere nel mio petto,

con i denti della ruspa, con le membra smembrate,

con le macerie dell’edificio, con il sudore della protezione

civile,

con le urla delle donne e dei bambini,

con il suono delle ambulanze, con i resti di un albero che amo,

con tutti questi volti che cercano i loro dispersi,

con la voce del bambino Anas sotto le macerie che dice:

«Sono ancora vivo»,

con i corpi senza lineamenti,

con l’attesa, l’attesa, e ancora l’attesa!

Posso scrivere una poesia con il fragore del tradimento,

con il silenzio nudo,

con la neutralità viscosa, con l’impotenza svelata,

con il servilismo verso l’America.

Cosa può una poesia?

***

Ali Abukhattab

(1976)

Poeta e critico letterario di Gaza. Ha scritto poesie e letteratura per l’infanzia e cofondato il collettivo Utopia che riunisce decine di scrittori e scrittrici provenienti dalla Striscia di Gaza. Fuggito in Egitto a seguito delle minacce subite da parte di Hamas, l’International Cities of Refuge Network gli ha permesso di trasferirsi in Norvegia, dove tuttora vive esiliato.

Il vuoto

Al vento la sua logica…

E tu cammini contro la salinità del tempo

L’odore del luogo ti chiama

Intrecci la tua morte con mani di buchi

Ti aggrappi al sibilo del vento

Bruci la tua essenza nel fuoco delle schegge

Inventi i tuoi rituali mischiando lacrime

alla schiuma degli spettri

Dall’abisso sorge la tua leggenda calpestata

Sali

Sali

Sali

Non fermarti sul ciglio dell’inno…

Li vedo avvicinarsi alla tua eco

Li vedo insinuarsi dalle membra della tosse

Fuggi

Segui la profezia del vento