Il digitale in mano ai talenti: esoscheletro più che robot

Per non inciampare nel depotenziamento delle facoltà cognitive occorre riallocare continuamente priorità e risorse e ridisegnare parte delle attività L'articolo Il digitale in mano ai talenti: esoscheletro più che robot proviene da Economy Magazine.

Apr 30, 2025 - 13:54
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Il digitale in mano ai talenti: esoscheletro più che robot

“Quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare”. (John Belushi alias John “Bluto” Blutarsky in Animal House).Questa massima nazionalpopolare è molto più veritiera di quanto una lettura veloce e preconcetta lasci intendere. Ci suggerisce in modo pop una delle doti fondamentali del talento: essere spinto – in ogni contesto – a fare di più e meglio. Nello specifico il talento riesce a gestire la crescente pressione sui risultati, gestire l’aumento della precipitazione emotiva nelle relazioni umane, fare, instancabilmente, sempre meglio e con meno. E lo fa per una spinta interiore, una pulsione al miglioramento continuo che gli consente non solo di assorbire attività incrementale ma anche di ridurre l’inquietudine dell’innovatore, mai pago di quello che ha fatto.

Questa capacità – anche sotto pressione – di assorbire progressivamente lavoro incrementale rende i talenti non solo molto amati dai capi, ma soprattutto figure chiave nei momenti di grande trasformazione. Ed è grazie non solo alla loro abilità, ma anche alla forza di carattere, che riescono (neutralizzando il bias di conferma) a riallocare continuamente priorità e risorse e ridisegnare quindi parte delle loro attività. In questo modo trovano sempre modi più efficaci per fare ciò che già facevano, e riescono ad «accogliere» le attività incrementali. Inoltre, durante le grandi trasformazioni, non tutti possono entrare da subito nel cambiamento. Serve un manipolo di figure visionarie, coraggiose e anche altruiste che si buttino nel problema con l’obiettivo di criticare («guastare») lo status quo per trovare e testare su di sé nuove ricette e nuovi antidoti e poi dimostrare agli altri – innanzitutto con i fatti (a cui devono poi seguire parole convincenti) – che non solo si può fare ma che i benefici sono oltre l’immaginazione. Sono dunque first mover, re-designer e poi testimoni di come si può cambiare.

Ma ai talenti bastano abilità e carattere? Per un artigiano e per un artista la questione è evidente: hanno bisogno anche di strumenti. Perfino il grande Michelangelo davanti a un blocco di marmo senza scalpello poteva fare ben poco. Lo dice in modo efficace il filosofo Bo Dahlbom: «Senza strumenti, a mani nude, il falegname non può fare granché e senza strumenti, con il solo cervello, anche il pensatore non può fare granché».

È strano che la questione non venga posta in azienda quando si parla di valorizzazione dei talenti o di sviluppo manageriale. Perfino nel mondo del software, i migliori programmatori utilizzano degli utensili – spesso autofabbricati in base al proprio stile e modus operandi – che permettono loro di fare meglio e in meno tempo. Ad esempio non rifacendo la stessa cosa due volte.

Il digitale, nelle sue varie forme, fornisce oggi moltissime opportunità anche per i colletti bianchi: strumenti di produttività, sistemi per la comunicazione arricchita (multimediale, asincrona, one-to-many), dashboard per raccogliere, correlare e visualizzare dati, piattaforme di IA generativa, soluzioni sempre più sofisticate e integrate per l’archiviazione e il reperimento smart di oggetti digitali…

Ma i talenti devono fare propri questi utensili: talvolta padroneggiarli, altre volte personalizzarli, altre volte ancora assemblarli usando moduli standard. Per questo motivo serve anche una capacità di progettazione organizzativa. Sempre più frequentemente, infatti, il modo di lavorare viene progettato non tanto dalle normative HR, quanto piuttosto dagli stessi team leader, che diventano progressivamente più designer che non manager. È però importante saper usare bene questi strumenti, e non essere usati da loro. Per questo motivo vanno visti come strumenti di potenziamento, ad esempio come gli esoscheletri che consentono ai paraplegici di camminare, e oggi anche agli operai di sollevare, con il pieno controllo umano, pesi che i loro muscoli non potrebbero sostenere. Pericoloso è invece considerarli dei sostituti a cui far fare tutto il lavoro: dei robot, dunque. E il rischio non dipende solo dal fatto che quando la macchina prende il pieno controllo può sbagliare. Ma anche perché più le tecnologie digitali sono sofisticate e riescono a “imitare” i nostri processi mentali (pensiamo alla GenAI) più cresce il depotenziamento delle nostre facoltà cognitive: ricordare, connettere, esercitare il pensiero critico. Il cervello e la memoria si comportano infatti come dei muscoli: meno li usiamo più si atrofizzano.

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