Il “complottismo” nella tradizione del movimento operaio
Per due secoli il complottismo è stato un habitus mentale dei movimenti operai. Fino a 50 anni fa era un moda intellettuale, a sinistra, discutere di “tendenze di fase” o […]

Per due secoli il complottismo è stato un habitus mentale dei movimenti operai.
Fino a 50 anni fa era un moda intellettuale, a sinistra, discutere di “tendenze di fase” o di “piano del capitale”, schematismi economici intrinsecamente complottisti.
Quando morì Pinelli, Dario Fo girò l’Italia con uno spettacolo complottista. Giorgio Gaber scriveva canzoni complottiste. Nelle università, nei salotti, nelle piazze, non eri nemmeno preso sul serio se non eri complottista. Il complottismo diventò una posa di maniera, una patente di intelligenza.
Nessuno più di me odia quella vecchia cultura di sinistra, pedagogica, intollerante, spocchiosetta. Però essa aveva il pregio di compattare il fronte, di indirizzare verso un nemico specifico la battaglia delle idee, pur con tutte le inevitabili imprecisioni di una razionalità collettiva. La ricaduta politica era efficace.
Oggi ci manca questo. Ci manca un modo per incanalare nella direzione giusta il complottismo spontaneo dei popoli, che lasciato da solo si disperde nei mille rivoli demenziali del web.
Quando a mia nonna capitava di ascoltare in televisione una nuova legge del governo, presentata in pompa magna con tante belle parole, alzava il sopracciglio e borbottava in dialetto qualcosa che aveva a che fare con la penetrazione anale coatta.
Non sapeva spiegare come e perché, ma era perfettamente consapevole che qualcuno stesse per violare il suo sacro buco. Una saggezza vecchia di secoli la supportava in questa convinzione.
Così funzionava un tempo. L’illetterato, l’incolto, almeno quello più smaliziato, non si fidava MAI, a prescindere, delle narrazioni ufficiali, e subdorava sempre l’inganno, anche se non sapeva spiegarlo. L’intellettuale era quello che glielo spiegava. Nei giorni della Comune di Parigi del 1968, Jean-Paul Sartre arrivò a glorificare, con un megafono in piazza, questa comunione di intellettuali e popolo, che forniva una testa a un corpo disseminato e caotico.
Karl Marx scrisse, nel documento fondativo della Prima Internazionale: “Le classi operaie devono capire i misteri della politica internazionale”.
Quel legame tra intellettuali e popolo oggi è stato interrotto da una figura inquietante, che si è frapposta di mezzo: il laureato medio, l’impiegato immateriale della grande fabbrica sociale del sapere tecnico.
Questa figura non ha gli strumenti culturali per chiarire a mia nonna le sue primordiali intuizioni. E così la deride. Il laureato medio non riesce più a relazionarsi in alcun modo con mia nonna, perché egli ha perduto la saggezza popolare, ma non l’ha sostituita con la consapevolezza storica. Questo si deve principalmente all’impoverimento dei programmi umanistici nella formazione delle classi dirigenti e dei quadri medi e medio-bassi.
Più aumenta la comprensione della realtà, più aumenta la capacità di individuare complotti con sempre più affinata precisione.
Se l’incolto è confusamente complottista, perché ha una visione di insieme confusa, la persona più colta è consapevolmente complottista, perché ha una visione di insieme più consapevole. Il laureato medio, invece, non è complottista affatto, perché non ha affatto visione di insieme, ma solo il perimetro angusto della propria “competenza”, ruota del macchinario tanto più efficiente quanto meno è critica dell’intero ingranaggio.
Prima l’operaio semianalfabeta poteva rivolgersi al giornale di partito, al collettivo di fabbrica, al volantino, per assorbire il linguaggio della contestazione e dare un senso pratico al proprio complottismo naturale. Si trattava di slogan semplificati, che non sarebbero sopravvissuti a un esame scientifico, ma che producevano un esito politico concreto.
Oggi chi non ha strumenti concettuali solidi ha perso i punti di riferimento politici, e ci mette poco a credere ai rettiliani, ai facili occultismi e a qualunque tipo di suggestione paranoica incontrata su internet. E quando poi arriva ad esprimere pubblicamente la sua strampalata teoria, l’elettore di sinistra ride di lui.
Oggi che stiamo conoscendo la più grande centralizzazione dei capitali della storia, in cui pochi fondi finanziari (Vanguard, Black Rock, State Street) detengono da soli buona parte della ricchezza mondiale, siamo praticamente tornati alla grande accumulazione dei primi dell’Ottocento, quando pochissime famiglie dominavano l’Europa (Rothschild, Péreire, Warburg).
Uno dei Rothschild disse la famosa frase “nella nostra famiglia cambiavamo i ministri europei come nelle normali famiglie si cambiavano i tovaglioli”. (Un vezzo di famiglia che dura tutt’oggi, in qualche misura).
Si dimentica spesso che il socialismo ottocentesco non nacque come un’utopia intellettuale solitaria, come quella di Platone o di Thomas More, ma fu creato dal capitalismo stesso, dalle sue esagerazioni, dai suoi complotti, come un suo prodotto sociale. Per questo nacque complottista.
Siamo orfani di un soggetto politico organizzato in grado di coinvogliare ideali, resistenze e complottismi. Siamo letteralmente nel 1825, retrocessi di due secoli, in cui la Lega dei Giusti (1836) non esiste ancora, e la Lega dei Comunisti (1848) non si intravede nemmeno.
Se vogliamo essere ottimisti, forse il nuovo dominio del capitale, con le sue esagerazioni e i suoi complotti, proprio ora sta producendo le condizioni sociali per una nuova teoria complottista unificata, capace di richiamare i popoli come una religione di salvezza e liberazione, che come quella marxista sarà detestabile, piena di errori e di approssimazioni, ma con un grande fondo di verità.