Hiv e Aids, in Italia oltre 2.300 nuove diagnosi nel 2023. Perché rischiamo di perdere la sfida

Il numero di nuove diagnosi di HIV in Europa è aumentato e nel 2023 in Italia sono state registrate oltre 2.300 nuove diagnosi. Non sta dando i risultati sperati la lotta all'Hiv che dovrebbe garantire la fine dell'epidemia entro il 2030, come stabilito dalle Nazioni Unite.

Mag 2, 2025 - 09:49
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Hiv e Aids, in Italia oltre 2.300 nuove diagnosi nel 2023. Perché rischiamo di perdere la sfida

I numeri non mentono. E mostrano chiaramente come l’obiettivo di andare verso il controllo dell’infezione da HIV sia ancora lontano da raggiungere. Pensate: stando al rapporto di sorveglianza sull’HIV/AIDS 2024 pubblicato dall’Ufficio regionale per l’Europa dell’Oms e dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), il numero di nuove diagnosi di HIV in Europa è aumentato nel 2023.

Dall’inizio della diffusione massiccia del virus HIV/AIDS nei primi anni Ottanta, nei 53 Paesi che compongono la regione europea dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), sono state diagnosticate più di 2,6 milioni di persone con l’infezione da HIV. Secondo il rapporto, nel 2023 ci sono state 113 mila nuove diagnosi di HIV in 47 Paesi europei, con un aumento del 2,4 per cento rispetto al 2022. Insomma, non siamo messi bene. Anche perché, con i percorsi che si stanno presentando, si rischia di rallentare ancora su scala mondiale nella sfida alla patologia, che dovrebbe portarci alla fine dell’epidemia entro il 2030, come stabilito dalle Nazioni Unite.

Nonostante i progressi della ricerca scientifica e delle terapie antiretrovirali, la mancanza di informazione, la scarsa diffusione della PrEP, lo stigma persistente e il silenzio che ancora avvolge l’HIV impediscono la diminuzione del numero di nuove infezioni. Gli ultimi dati italiani indicano che nel 2023 sono state registrate ancora oltre 2.300 nuove diagnosi, di cui il 60% avvenute quando il sistema immunitario è già compromesso. Sono solo alcuni dei punti chiave emersi nel corso del convegno “HIV SUMMIT: Ending the HIV Epidemic in Italy”, tenutosi a Roma.

La prevenzione è possibile

La prevenzione rappresenta uno strumento chiave per cambiare rotta e raggiungere l’obiettivo di diminuire drasticamente il numero di nuove infezioni. E passa ovviamente attraverso un concetto semplice ma al contempo difficile da realizzare. Occorre puntare su una formula: U=U. il che significa undetectable=untransmittable, ovvero non rilevabile, non trasmissibile).
L’innovazione terapeutica, infatti, da una parte consente di pensare a una protezione pre-esposizione efficace e flessibile, dall’altra a terapie in grado di abbassare così tanto la carica virale da impedire la trasmissione del virus da parte della persona con HIV.

“Nonostante questi innegabili successi, restano ancora criticità che è necessario affrontare a livello globale. Va garantito un maggior accesso alle terapie sia per prevenire l’infezione sia per curare chi l’ha contratta. La storia dell’HIV ci insegna che ogni traguardo è stato raggiunto grazie alla collaborazione tra ricerca scientifica, attivismo e volontà politica. È questo il modello che dobbiamo rilanciare oggi, per superare le disuguaglianze nell’accesso ai trattamenti, rafforzare l’aderenza terapeutica e rimettere al centro la prevenzione”

è il commento di Stefano Vella, Infettivologo e docente di salute globale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.

La situazione in Italia

Le opzioni attuali di prevenzione, in particolare la profilassi pre-esposizione (PrEP), non sempre rispondono pienamente alle esigenze di coloro che desiderano o necessitano di protezione contro l’HIV. Per molti, le soluzioni esistenti non sono sufficienti, e c’è una crescente richiesta di modalità di prevenzione più accessibili, efficaci e pratiche.

“Allo stato attuale, si stima che in Italia ci siano circa 140.000 persone che vivono con l’HIV. Per affrontare davvero l’epidemia, è fondamentale mettere in campo strategie di prevenzione strutturate, che rendano accessibili strumenti come il test per l’HIV, il profilattico e soprattutto la PrEP. Serve un investimento deciso su informazione, cultura della percezione del rischio e servizi territoriali, come i checkpoint, che devono essere rafforzati anche grazie a risorse pubbliche. Solo con una risposta condivisa e intersettoriale potremo far emergere il sommerso, interrompere le nuove infezioni e costruire una rete di prevenzione davvero efficace”

ha fatto sapere Andrea Antinori, Direttore del Dipartimento Clinico dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani IRCCS di Roma.

Difficile raggiungere gli obiettivi

L’obiettivo comune è la costruzione di una roadmap concreta, e non solo per l’Italia, per il raggiungimento dei target UNAIDS 95-95-95, fondamentali per porre fine all’epidemia da HIV entro il 2030. Ma non sembra davvero semplice da raggiungere, anche per i tagli che gli Usapreannunciano per le agenzie che si occupano di salute pubblica, come Usaid e CDC, oltre alla diminuzione dell’impegno nell’OMS. Lo ha ricordato recentemente il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus. Il rischio è che per l’HIV si rischia di replicare quanto potrebbe avvenire con la ripresa dei casi di malaria.

“La sospensione della maggior parte dei finanziamenti al Pepfar, il President’s Emergency Plan for Aids Relief, ha causato un’immediata interruzione dei servizi per il trattamento, i test e la prevenzione dell’HIV in oltre 50 paesi”

è stato il suo commento. Ma non basta. Il calo dei programmi di supporto per l’HIV potrebbero condurre ad oltre 10 milioni di casi aggiuntivi di infezione e 3 milioni di decessi ad essa associati.
Per quanto riguarda l’Europa, la situazione non appare certo soddisfacente. Il Vecchio continente non è sulla buona strada per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) per il 2030 su HIV oltre che per tubercolosi, epatite virale B e C e malattie a trasmissione sessuale. A dirlo è il primo rapporto di monitoraggio sugli SDG pubblicato dall’Ecdc, Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie.

Non sembra concludersi, insomma, una storia iniziata oltre 40 anni fa. Era il mese di marzo del 1981, quando i Centers for Disease Control (CDC) di Atlanta, negli USA hanno ricevuto la segnalazione che a New York almeno otto giovani uomini omosessuali sono stati colpiti da una forma aggressiva di sarcoma di Kaposi, un tumore molto raro che di solito si caratterizza per l’andamento benigno e la predilezione per l’età avanzata. Il mese dopo, i CDC sono stati avvertiti che stanno aumentando anche i casi di polmonite da Pneumocystis carinii, anch’essa fino a quel momento molto rara. Ancora due mesi e il 5 giugno 1981 il bollettino epidemiologico dei CDC MMWR Weekly ha pubblicato l’articolo “Pneumocystis Pneumonia – Los Angeles”, che segna l’esordio ufficiale dell’epidemia di Aids. Poi, nel maggio 1983 Luc Montagnier, dell’Institut Pasteur di Parigi, ha riferito di avere isolato il nuovo virus e lo chiama LAV (lymphadenopathy-associated virus). Ma solo nel 1986 il nuovo virus viene ufficialmente “battezzato” con il suo nome attuale: virus HIV (Human Immunodeficiency Virus).