Ha ancora senso investire in America?
A un recente convegno di Anima, Daniel Gros ha dichiarato, con senso del paradosso, che il prossimo Premio Monnet dovrebbe andare a Donald Trump. Il premio, istituito nel 2018, viene conferito dal parlamento europeo a persone o gruppi che si sono distinti nel rafforzare il processo di integrazione europea con un loro particolare progetto. Il... Leggi tutto

A un recente convegno di Anima, Daniel Gros ha dichiarato, con senso del paradosso, che il prossimo Premio Monnet dovrebbe andare a Donald Trump. Il premio, istituito nel 2018, viene conferito dal parlamento europeo a persone o gruppi che si sono distinti nel rafforzare il processo di integrazione europea con un loro particolare progetto. Il progetto di Trump, lasciare che l’Europa difenda sé stessa finanziandosi con debito comune e rilanciando in questo modo la sua economia, offre indubbiamente un’opportunità rilevante all’integrazione.
Nelle stesse ore Mao Keji, un giovane accademico emergente che è stato ricercatore a Harvard e insegna a Tsinghua, in un’intervista rilasciata a China Academy ha affermato che la Cina deve essere profondamente grata a Trump, in particolare al Trump del primo mandato. Fu allora infatti che la Cina passò ufficialmente da coprotagonista della globalizzazione ad avversario economico e strategico. La Cina, che se ne stava tranquilla a produrre ed esportare, si accorse di essere sotto attacco e vulnerabile e iniziò a correre ai ripari. In questi anni la Cina è stata quindi in grado di portare avanti, finora con grande successo, la linea della completa autosufficienza in tutti i principali settori produttivi. A questo punto, sostiene Mao Keji, la Cina può tenere fronte agli attacchi senza piegarsi, aspettando semmai che, a piegarsi, sia presto o tardi l’America.
Tutti, dunque, ringraziano ufficiosamente Trump per avere dato loro la sveglia. La retorica ufficiale è diversa, ovviamente, anche perché attaccare l’America offre oggi occasioni di consenso senza precedenti ai politici. In Canada, il moribondo partito liberale di Trudeau e Carney è risorto grazie al suo atteggiamento apparentemente intransigente nei confronti degli Stati Uniti. Che poi le dichiarazioni di fuoco davanti alle telecamere siano seguite da telefonate in cui si tratta al ribasso con la Casa Bianca e si ritirano le misure annunciate con enfasi poco prima non conta molto.
Trump, dunque, come euforizzante per il resto del mondo. Ma per l’America? In questi giorni vediamo scendere la fiducia dei consumatori e delle imprese. La Borsa fatica a riportarsi sui massimi e sembra destinata a galleggiare ingloriosamente per tutto quest’anno mentre gli altri mercati continuano a essere comprati. Mettendo insieme la sopravvalutazione della borsa e quella del dollaro, Dario Perkins dà voce a quello che un po’ tutti si stava cominciando a pensare e si pone la fatidica domanda. L’America è diventata ininvestibile?
Se fosse solo una questione di bolle da sgonfiare, basterebbe dare tempo al tempo e aspettare che la fisiologia faccia il suo corso per poi rientrare, magari alla fine di quest’anno, in vista delle elezioni di mid-term del novembre 2026. Probabilmente è proprio così, ma, per prudenza, è bene tenere presenti anche ipotesi più radicali.
Mao Keji dice che Trump gli ricorda sia Krushchev sia Gorbaciov. Krushchev, in occasione del XX Congresso del Pcus del 1956, presentò un rapporto segreto sui crimini di Stalin che costituì la premessa delle politiche successive. Questo lo rafforzò all’interno, ma indebolì seriamente l’immagine dell’Unione Sovietica a livello internazionale. Il lavoro di Trump sul passato, con l’apertura degli archivi storici, e sul presente, con l’esposizione della corruzione nello Stato profondo, rischia di avere lo stesso effetto.
Ancora più preoccupante è il paragone con Gorbaciov, che avviò nel 1985 il suo processo di riforme strutturali, la Perestroika, con l’obiettivo da una parte di ridare efficienza al sistema ma soprattutto, dall’altra, di riportare le ambizioni dell’Urss sul livello, ben più ridotto, delle sue capacità reali. Come ha scritto Vladislav Zubok nel suo eccellente libro Collapse, la caduta dell’Unione Sovietica non fu voluta e non fu nemmeno inevitabile. Fu il frutto di un processo sfuggito di mano per incompetenze a vari livelli, precipitato poi sul finale dal separatismo interno dei leader delle repubbliche, con Eltsin in testa.
Ogni caso fa naturalmente storia a sé ma non è raro, anzi, che siano i processi riformatori ad accelerare (e non a prevenire) le rivoluzioni e le cadute di regime. Il caso della Rivoluzione Francese, che la monarchia cercò di prevenire autoriformandosi, è paradigmatico.
Bessent, che tra le tante cose è professore di storia, sostiene che il precipitare della crisi americana ci sarebbe stato in tempi brevi con la prosecuzione delle politiche di Biden. I mercati, dice, erano sul punto di iniziare a rifiutare di finanziare il debito fuori controllo degli Stati Uniti. Le politiche di spesa pubblica avevano gonfiato un’occupazione insostenibile. Gli alti livelli di tassazione in metà degli stati americani li stavano deindustrializzando velocemente. Il dollaro artificiosamente forte attirava capitali speculativi che alimentavano una bolla che sarebbe presto scoppiata. Siamo arrivati appena in tempo, conclude, per evitare il collasso del modello.
Anche il meglio meno ma meglio di Trump e di Bessent, tuttavia, non è esente da rischi. Il più grave tra questi, messo in luce recentemente da Larry Summers, è quello di una progressiva perdita di ruolo da parte del dollaro. L’indebolimento dello status di valuta di riserva aprirebbe la strada a un avvitamento tra caduta del dollaro e caduta degli asset finanziari americani, con conseguente ampia monetizzazione del debito da parte della Fed, inflazione e conflitti sociali.
Detto questo, che il processo di ristrutturazione dei rapporti economici e politici all’interno dell’Occidente sfugga di mano rimane uno scenario di coda, da non escludere a priori ma da non assumere per disegnare scelte d’investimento. Lo scenario di base resta quello di qualche mese di consolidamento, con un’espansione meno brillante che sfebbra le attese di inflazione e un contenimento della spesa tale da rassicurare i mercati ma non tale da compromettere il segno positivo della crescita dell’economia.
Per il Treasury decennale questo può significare convergere nel rendimento con quello dei Bund (poco sotto il 4%). Per la Borsa americana, che comunque è destinata a vivere il 2025 come anno di consolidamento, ci può essere un ulteriore downside del 10% (magari dopo i dazi di aprile) seguito da un recupero oppure, se i dazi verranno bene assorbiti, il continuare a muoversi su questi livelli.
La Borsa cinese, ricordiamo, fu dichiarata tre anni fa ininvestibile per tutto l’orizzonte prevedibile. Guerra per Taiwan e conseguenti sanzioni, si diceva, avrebbero prima o poi privato di valore ogni investimento finanziario occidentale in Cina. Sono passati tre anni, Taiwan non è ancora stata ripresa e la Cina è tornata a essere uno dei mercati finanziari più interessanti anche per gli investitori occidentali.
Per l’America basterà molto meno e già l’anno prossimo vedremo probabilmente di nuovo un clima costruttivo. Per quest’anno dovremo accontentarci del resto del mondo.
A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos (rubrica Il Rosso e il Nero)