Francesco Micheli, capitalista ben poco riluttante
"Il capitalista riluttante. Confessioni dal cuore del potere" letto da Teo Dalavecuras

“Il capitalista riluttante. Confessioni dal cuore del potere” letto da Teo Dalavecuras
Caro direttore,
il Sabato Santo di solito si dà un’occhiata frettolosa al quotidiano perché altre sono le priorità, i riti religiosi per i cristiani praticanti e un po’ per tutti l’organizzazione di pranzi e cene. Ma l’occhiata frettolosa questa volta si è fermata su una pubblicità, un “francobollo” in fondo alla prima pagina del Corriere della sera che riproduceva la copertina di un libro: foto scarsamente leggibile ma leggibilissimo il nome dell’autore, Francesco Micheli. Titolo Il capitalista riluttante.
Per chiunque abbia esercitato il mestiere del giornalista economico-finanziario a partire dagli ultimi due decenni del secolo scorso, Francesco Micheli è un nome che dice molto. È una quasi unica storia di grande successo nelle acque perigliose dell’alta finanza che non si sia conclusa, per una ragione o per l’altra, con un finale da caduta degli dèi, e dico “quasi” solo perché non ho mai studiato specificamente l’argomento, le graduatorie non mi appassionano. Micheli non è figlio d’arte, né erede di una dinastia del denaro, a differenza dell’avvocato Agnelli che con la sua inimitabile ma imitatissima svagata erre moscia attribuiva la propria posizione socioeconomica ad alcune disposizioni del diritto societario (e, ça va sans dire, del diritto successorio).
Figlio di Umberto, musicista, compositore e docente al Conservatorio, che gli ha trasmesso passione autentica per la musica e per l’arte in generale, Micheli era un mito tra i giornalisti economici, con i quali interloquiva spesso e volentieri ma mai per distribuire quelle pillole di fake-truth (allora il termine era ignoto, ma non la corrispondente pratica) che servono a produrre qualche effetto desiderato nei mercati o a promuovere la propria immagine; piuttosto aiutava i suoi interlocutori a districarsi nella boscaglia delle voci e delle informazioni finanziarie (erano tempi in cui consultare i bilanci, anche delle società quotate, era un esercizio sostanzialmente inutile). In questo modo, con garbo, Micheli si è costruito, a occhio e croce a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento, una rete senza pari di contatti nel mondo dell’informazione.
Normalmente, un libro nel quale l’autore parla di sé è un’autobiografia, ma non userei questo termine, che ha una connotazione burocratica, per il libro di Micheli, piuttosto parlerei dell’autoritratto di un uomo che, alla prima lettura, si mostra molto soddisfatto di sé e della propria vita. Una vita della quale offre, con una tecnica – posso chiamarla impressionistica? – sprazzi interessanti, divertenti, avvincenti (in particolare la storia della traversata del mar Tirreno da Piombino alle Eolie insieme a un compagno di scuola, a 17 anni a bordo di un dinghy di 12 piedi). Sprazzi che talora si aprono a considerazioni più generali sulla vita ma che non compongono una storia, tanto meno pretendono di collocare nella Storia la vita del protagonista. All’inizio del capitolo finale, quello dei ringraziamenti, Micheli scrive, sdoppiandosi nel duplice ruolo di Leporello e di Don Giovanni: “Il catalogo è questo e, come vedete, è grande (…). Sono tanti gli amici che hanno condiviso con me alcuni momenti della mia vita e, a volte, mi hanno aiutato a innescare la memoria, diventata racconto, questo racconto, che nonostante loro sono riuscito a scrivere”. Sottolineo le ultime parole perché lasciano intendere che gli amici, alcuni amici o certi amici, abbiano cercato di dissuaderlo da questa sua iniziativa letteraria. Con la sua estesa rete di conoscenze amicizie e interessi nel mondo dell’editoria libraria quanti e quali saranno stati i tentativi di dissuaderlo?
Ma, e questo si capisce leggendo il libro, nonostante una condotta affabile e la genuina passione per i rapporti umani che gli ha procurato un impressionante numero di rapporti amicali (l’elenco di quelli che, in ordine rigorosamente alfabetico ritiene di dover ringraziare, che sicuramente non è esaustivo, occupa quattro pagine), una personalità che lo psicologo definirebbe perfettamente compensata, il ritratto che affiora dal libro è quello di una persona non interamente risolta. Benché nei ritratti dei personaggi che affollano il racconto sia complessivamente fair e denoti capacità di penetrazione psicologica, in qualche caso prevale il riflesso del proprio rancore. É il caso, per esempio, del finale di partita a Finarte, quando si forma un’alleanza tra Casimiro Porro ed Eugenio Cefis contro Micheli che però – racconta – poche ore prima dell’assemblea di bilancio aveva ceduto le proprie azioni “lasciando d’alpacca lui (Cefis, ndr) e i suoi compari, tra cui Miro Porro” e conclude: “Uscire dal saloon un secondo prima della sparatoria, sempre”. Fin qui tutto normale, ma Micheli aggiunge una considerazione finale: “Poco dopo Finarte, guarda caso, andò a sbattere, come tutti, dico tutti quelli che mi si rivoltarono contro: non ce n’è uno che si sia salvato, accecato dal Dio denaro, il più subdolo, il più cattivo”.
Ci si chiede: quando ormai è obiettivamente prossima la conclusione di una carriera, o meglio di una vicenda umana invidiabile sotto tutti i punti di vista, perché questo bisogno di sferzare antichi compagni di strada che, pur traviati dall’avidità, hanno già avuto il loro castigo? Se da un lato va riconosciuta l’estrema sincerità con la quale Micheli ha affrontato la sua impresa letteraria, innegabilmente nell’accanimento c’è qualcosa di non risolto, che ogni tanto affiora. Quando riferisce del nomignolo (“Sua Vanità”) affibbiato da Eva Cantarella a Guido Rossi, al quale peraltro era stata legata da una relazione sentimentale che nella Milano pettegola dei primi anni Ottanta aveva fatto sensazione. O quando racconta, sempre a proposito di Guido Rossi, della parcella di 5 miliardi poi ridotta a “soli” due miliardi e mezzo (“la grandeur del Professore” commenta Micheli), e questo dopo avere raccontato che, nell’esperienza con Eugenio Cefis in Montedison “l’incontro che umanamente e professionalmente per me ha fatto la differenza è stato quello con Guido Rossi”. O ancora l’uso ricorrente del verbo “rosicare” riferito all’invidia agli avversari sconfitti. Sicché è impossibile non immaginare, quando Micheli scrive “Ho sempre cominciato una nuova avventura per divertirmi e non con finalità di guadagno” che il divertimento sia lo spettacolo dei rivali rosi dall’invidia (benché nell’ideologia del successo di Micheli si intuisca anche un elemento di calvinismo: far fruttare all’estremo i propri talenti non è una scelta ma un dovere). In ogni caso, senza qualcosa di non risolto probabilmente nessun libro sarebbe mai nato.
E questo è un libro che meritava di nascere. Non rivela quasi nulla che già non si sappia sulle gesta finanziarie di Micheli, che sicuramente meriterebbero un libro (e forse qualcuno dei suoi importanti amici giornalisti lo scriverà) ma è un racconto autentico a 360 gradi: dedicato equamente alle sue radici personali e alla sua famiglia, ai suoi amici (moltissime “persone importanti” del mondo artistico musicale figurativo e letterario e dell’editoria) alla sua passione per il mare e per i viaggi avventurosi. Quanto alle più note vicende finanziarie, da Gemina all’Ambrosiano, alla scalata della Bi-Invest seguita da quella della Fondiaria, due sfide a un establishment ormai declinante, che gli hanno offerto lo spettacolo di un Enrico Cuccia rosicante e di un avvocato Agnelli – nel suo sconfinato cinismo – divertito, nel libro se ne parla con tocco lieve, senza mai entrare nei dettagli, più che altro per mettere qualche puntino sulle “i” a beneficio della propria immagine. Del resto, Micheli rivendica di essere del tutto immune da ogni forma di masochismo né, per quanto ne so, nessuno ha mai nutrito dubbi al riguardo..
La scrittura è la sua, aspra e senza la minima concessione allo stile (come doveva essere quella del salone delle Grida di Piazza Affari, dove Micheli sotto la guida di Aldo Ravelli si era fatto le ossa negli anni Sessanta). Senza nessuna concessione neppure all’architettura del racconto, che vaga e va avanti indietro tra il piccolo mondo antico di Parma e l’isola del Diavolo nella Guyana francese, quasi seguisse la logica delle “libere associazioni” di freudiana memoria che, come sappiamo, non sono poi così libere. Anche questo dice qualcosa su un personaggio che non avrebbe avuto difficoltà ad arruolare un ghostwriter con corredo di Premio Strega, quantomeno.
Solo due parole, per finire, sul profilo che esce dal libro (a parte ambizione, volontà e sistema nervoso d’acciaio che possiamo dare per scontati). È l’autoritratto di un uomo “attento e curioso”, come dice di se stesso citando Guido Rossi, ma si può aggiungere meticoloso, coraggioso e particolarmente versato nell’arte di misurare il rischio, rapido come un fulmine nell’inquadrare le situazioni e paziente nel realizzare le strategie, rigoroso nell’osservare le regole del gioco, quelle che contano e non sono scritte e spesso neppure dette, con una sensibilità per le sfumature che non può che essergli venuta che dalla passione per la musica e quindi da suo padre. Senza dimenticare un altro tipo di sensibilità, quella per il potere, che non incide tanto sul risultato economico complessivo delle operazioni – sempre condizionato da fattori esterni – ma sulla sua ripartizione, un argomento sul quale si intuisce che Micheli non è mai stato troppo disposto a compromessi. Definire però, nel titolo del libro, Micheli “Capitalista riluttante” è una mediocre trovata di marketing. Di “riluttanza” nel libro non c’è nemmeno l’ombra, anzi l’aggettivo rinnega la figura di un uomo che ha voluto fermamente diventare un grande borghese. E c’è riuscito.