Dazi, la minaccia di von der Leyen di tassare le Big Tech è una bufala?
Ci sono diversi ostacoli per mettere in atto le minacce che la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha avanzato nei confronti delle Big Tech. Sarà quindi difficile materializzare la cosiddetta web tax che la numero uno della Ue ha ventilato contro le grandi piattaforme Usa in risposta alla politica dei dazi di […] The post Dazi, la minaccia di von der Leyen di tassare le Big Tech è una bufala? appeared first on Key4biz.

Ci sono diversi ostacoli per mettere in atto le minacce che la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha avanzato nei confronti delle Big Tech. Sarà quindi difficile materializzare la cosiddetta web tax che la numero uno della Ue ha ventilato contro le grandi piattaforme Usa in risposta alla politica dei dazi di Trump. Lo scrive il sito specializzato Politico.eu, secondo cui la minaccia lanciata da von der Leyen di introdurre una nuova tassazione ad hoc sui ricavi pubblicitari dei servizi digitali se i negoziati sui dazi commerciali con Trump non andranno a buon fine è più uno spauracchio virtuale che una reale minaccia.
Pochi diplomatici avranno il coraggio di dirlo apertamente, me la mossa di von der Leyen di prendere di mira le Big tech è considerata una cattiva idea. Dietro le quinte, molte capitali Ue che ufficialmente si schierano con von der Leyen in realtà sono contrari.
Dietro la facciata, paesi come Germania e Irlanda stanno già mettendo i bastoni fra le ruote alle minacce di Bruxelles e altri potrebbero aggiungersi a breve.
Quel che preoccupa di più gli imprenditori è il rischio di un effetto boomerang per l’economia Ue.
Politico individua 5 motivi per cui le minacce di Bruxelles sono controproducenti.
1. Non ci sono reali alternative
La tesi è che le aziende europee continueranno comunque a usare Facebook e Google per la loro pubblicità online perché non ci sono strade alternative basate in Europa.
“Se si considerano i data center, il cloud, i data center basati sull’intelligenza artificiale, purtroppo non ci sono alternative sufficienti alle offerte dell’industria digitale americana”, ha dichiarato ai giornalisti la scorsa settimana il Ministro delle Finanze di Berlino, Jörg Kukies.
Questo significherebbe che un’azione dell’UE per colpire le aziende tecnologiche statunitensi non farebbe altro che ricadere direttamente sulle aziende e sugli acquirenti europei.
Queste irrituali dichiarazioni hanno irritato la Presidente della Banca Centrale Europea Christine Lagarde, che a porte chiuse se ne è lamentata con i ministri delle Finanze Ue. Ma in effetti, molti esperti concordano con la tesi di Kukies, secondo cui è difficile imporre tali misure senza danneggiare eccessivamente i consumatori o le aziende dell’UE.
2. Non c’è un modo facile e chiaro di implementare la web tax
Adottare una digital tax è un campo minato legale.
I tentativi di implementare un’imposta sui servizi digitali ad ampio raggio sui ricavi delle aziende sono sempre falliti, poiché modificare la politica fiscale richiede l’unanimità tra i 27 paesi dell’UE.
Per evitare questa tagliola, von der Leyen ha suggerito che i servizi digitali e, in particolare, i ricavi pubblicitari potrebbero essere presi di mira attraverso il cosiddetto bazooka commerciale – lo Strumento Anti-Coercizione – che finora non è mai stato utilizzato.
Lo strumento anti coercizione, tuttavia, non può essere utilizzato contro le aziende con una forte presenza in Europa. E la maggior parte delle aziende digitali rientra in questa categoria perché è registrata in paesi dell’UE come l’Irlanda (Apple, Microsoft, Google, Meta) o il Lussemburgo (Amazon).
Esiste un modo per aggirare questo problema. L’UE potrebbe prendere di mira i beni venduti online da venditori statunitensi ad acquirenti europei, ma ciò sembra poco pratico. Per farlo, bisognerà identificare chi sono i venditori statunitensi sulla piattaforma che [ad esempio] Amazon venderà ai consumatori dell’UE. E questo è molto più difficile, dicono gli esperti.
3. Il niet dell’Irlanda
L’Irlanda ha molto da perdere da qualsiasi imposta sulle aziende tecnologiche e ha già pubblicamente contestato tale misura. Dublino è pronta a resistere, considerando una nuova tassa sulle web company Usa come benzina sul fuoco. L’Irlanda è uno dei paesi più esposti alla guerra commerciale con gli Usa, visto che ospita la gran parte delle Big Tech americane senza citare le esportazioni di farmaci per un controvalore di 44 miliardi di euro verso gli usa nel 2024.
L’Irlanda ha una base imponibile estremamente concentrata per le società, che dipende in larga misura in particolare dalle multinazionali statunitensi.
Dieci aziende rappresentano il 60% del gettito fiscale irlandese derivante dalle società e circa il 30% del gettito fiscale totale proviene ora dal settore societario.
4. La promessa di un accordo fiscale globale
Negli ultimi giorni, gli Stati Uniti hanno segnalato all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) la loro intenzione di riaprire le discussioni su un accordo fiscale globale.
Washington non ha mai sottoscritto la parte dell’accordo volta a far pagare più tasse ai gruppi Big Tech e alle multinazionali nei paesi in cui hanno sede i loro clienti, il che significa che tale sezione dell’accordo non è ancora stata concordata.
La minaccia di von der Leyen di imporre nuove tasse sulla tecnologia, oltre a quelle già applicate dai singoli paesi dell’UE, potrebbe spingere Washington a cercare una soluzione globale.
In un’intervista al Financial Times, il Segretario generale dell’OCSE, Mathias Cormann, ha detto che gli Stati Uniti stanno attivamente partecipando alle discussioni.
5. Escalation senza de-escalation
La strategia di von der Leyen è rischiosa, e lei lo sa. Minacciare tasse contro le Big Tech ha lo scopo di portare Trump al tavolo delle trattative e incoraggiare un accordo commerciale.
Ma i critici temono che le cose possano andare diversamente. Le tasse digitali potrebbero provocare una controreazione da parte degli Stati Uniti, che potrebbe sfociare in una vera e propria guerra commerciale con l’Europa.
Ciò danneggerebbe la crescita in tutta l’Unione, e in particolare in paesi come Germania e Italia, che dipendono fortemente dalle esportazioni verso gli Stati Uniti.
La BCE stima che i dazi unilaterali statunitensi colpirebbero il tasso di crescita dell’eurozona di 0,3 punti percentuali nel primo anno e fino a 0,5 punti se l’UE reagisse con la stessa moneta. Von der Leyen lo sa bene, e questa settimana sembra aver attenuato la sua retorica.
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