Cosa possiamo imparare dal fotovoltaico spaziale
C’è un luogo vicino a noi dove l’energia elettrica di origine solare domina incontrastata, con percentuali vicine al 100%. Basta guardare in alto: i quasi 12mila satelliti che ruotano intorno alla Terra, dai 200 ai 36.000 km dell’orbita geostazionaria, sono quasi tutti alimentati da pannelli solari, così come lo sono molte delle sonde e dei […] The post Cosa possiamo imparare dal fotovoltaico spaziale first appeared on QualEnergia.it.

C’è un luogo vicino a noi dove l’energia elettrica di origine solare domina incontrastata, con percentuali vicine al 100%.
Basta guardare in alto: i quasi 12mila satelliti che ruotano intorno alla Terra, dai 200 ai 36.000 km dell’orbita geostazionaria, sono quasi tutti alimentati da pannelli solari, così come lo sono molte delle sonde e dei rover spaziali, inviati a studiare gli altri pianeti.
Le eccezioni sono alcuni satelliti militare, e le sonde dirette oltre Giove, che vengono fatte funzionare con dispositivi termo elettrico nucleari. Per il resto il solare regna sovrano.
Se oggi l’energia solare è quella che produce sulla Terra l’elettricità più economica, si devono ringraziare i passati programmi spaziali che hanno via via accumulato le conoscenze per realizzare celle fotovoltaiche sempre più efficienti (le prime in silicio convertivano solo l’1% della luce solare) e duraturi, aprendo la strada alla loro produzione di massa.
Ne scrisse approfonditamente già nel 1999 John Perlin, studioso della storia delle tecnologie, nel suo libro “Dal Sole. L’energia solare dalla ricerca spaziale agli usi sulla terra” (Edizioni Ambiente, pp.192, oggi disponibile su Amazon).
Ma il solare che va in orbita, è lo stesso di quello terrestre?
“Naturalmente no”, ci dice l’ingegnere Andrea Troise, della startup Astradyne, incubata nel campus del Politecnico di Bari, che si occupa proprio di solare innovativo per i satelliti.
“Ci sono tre ragioni principale per cui il fotovoltaico spaziale deve essere molto diverso da quello terrestre. Prima di tutto il peso, visto che il costo di un lancio orbitale si aggira sui 2500 € per kg, un pannello terrestre con la sua cornice d’alluminio e il pesante vetro è improponibile. I pannelli per l’orbita devono essere ultraleggeri sia nelle celle che nei materiali di supporto”.
A influire sul peso è anche l’efficienza delle celle: più questa è alta e più sarà ridotta la superficie del pannello, a parità di energia prodotta.
“E infatti normalmente in orbita non si mandano più, come avveniva fino a qualche decennio fa, celle al silicio cristallino, ma celle a tripla o quadrupla giunzione, cioè formate da tre o quattro strati di diversi semiconduttori, come per esempio quelle dell’italiana Cesi, che usano indio fosfato di gallio, indio arsenurio di gallio e germanio. Ognuno di questi strati assorbe una parte diversa dello spettro solare, e così complessivamente l’efficienza di questo tipo di pannelli, arriva fino al 32%, a costi però che si aggirano su centinaia di euro per watt di potenza”, spiega Troise.
I costi derivano dalla seconda caratteristica che differenzia solare terrestre e spaziale: l’affidabilità.
“Certo – chiarisce Troise – perché se il pannello non funziona o funziona male non si può mandare in orbita un tecnico a sostituirlo, e senza la sua elettricità l’intero satellite diventa inutile, con perdite di milioni di euro. Le celle che vanno in orbita devono essere ultra-selezionate, e tutta la struttura e l’elettronica del pannello devono avere un’altissima affidabilità, e ciò incide sui costi”.
A rendere ancora più alta la qualità necessaria è la terza differenza fra spazio e terra: l’ambiente di lavoro.
“Nello spazio i pannelli vengono bombardati da radiazioni e particelle elettricamente cariche, sono esposti al vuoto, e quindi possono perdere materiali sotto forma di gas, e subiscono sbalzi di temperatura di centinaia di gradi ogni volta che passano fra la luce e l’ombra. Un normale pannello solare in silicio perde molto rapidamente la sua capacità di produrre elettricità, e con la sua fine finisce anche il satellite. Le celle multi-giunzione si sono rivelate molto più resistenti nell’ambiente spaziale del silicio cristallino, capaci di funzionare con una perdita di efficienza anche solo dell’1% l’anno. Anche questo ha decretato il loro successo”, spiega il ricercatore di Astradyne.
Celle così efficienti, sarebbero però molto utili anche sul pianeta: è immaginabile una loro produzione per i grandi impianti al suolo o almeno per nicchie come l’essere incorporate nelle carrozzerie delle auto elettriche e rifornirle un po’ meglio di quanto facciano quelle al silicio?
“I driver del costo di quelle celle, si è visto, sono la loro affidabilità e robustezza, ma c’è anche la complessità della loro fabbricazione e l’uso di elementi piuttosto rari: il germanio costa circa 2000 dollari al chilo, il gallio 1000. E la loro abbondanza è molto bassa, 1,6 parti per milione di crosta terrestre per il germanio, contro il 27 parti ogni cento del silicio. Quindi, anche se forse si potrebbero ottenere un calo dei costi, ampliando la scala della fabbricazione di celle multi-giunzione di questo tipo, temo che la scarsità di quegli elementi non consentirebbe una produzione di massa economica”, ricorda Troise.
Niente distese di pannelli multi-giunzione nei campi, quindi, invece, curiosamente, potrebbe presto avvenire il contrario: il ritorno del silicio in orbita.
“Sì, e questo per due ragioni. Prima di tutto le celle al silicio sono molto migliorate rispetto a qualche anno fa, e oggi si aggirano intorno al 25% di efficienza. In secondo luogo, sempre più satelliti non sono più destinati a restare in orbita per decenni, ma ad avere una vita relativamente breve, intorno ai cinque anni, come quelli in orbita bassa per le telecomunicazioni internet o telefoniche, ed è quindi inutile equipaggiarli con le resistentissime celle multi-giunzione. Si tratterebbe di un segreto industriale, ma più fonti riportano che i circa 7000 satelliti Starlink in orbita bassa usino già semplici celle al silicio che abbattono il loro costo”, dice l’esperto.
La perovskite, materiale economico e semplice da usare per produrre celle solari, unita al silicio, può portare l’efficienza del FV al livello di quelli multi-giunzione, circa il 35%: potrebbe avere un futuro nello spazio?
“Beh, prima dovrebbe dimostrare di avere un futuro sulla Terra. Le celle a perovskite hanno ancora una vita troppo breve, una frazione di quella del silicio, per essere commerciabili. Se risolveranno quel problema qualcuno proverà a testarle anche nello spazio, da sole o con il silicio, e vedremo come se la cavano in quel difficile ambiente”, dice Troise.
E sarà possibile che veramente in futuro ci siano grandi centrali solari in orbita?
“Sergio Pellegrino, professore al Cal Tech che ho conosciuto, è un ricercatore che si è occupato dell’idea di mettere in orbita geostazionaria grandi distese di pannelli, sempre illuminati dal Sole, che inviano l’energia come microonde a Terra, realizzando piani precisi di costruzione e stime delle spese necessarie e del costo dell’energia così prodotta. Ma i problemi per la sua applicazione pratica sono immensi, dall’assorbimento delle microonde nell’atmosfera terrestre, alla loro ricezione a terra, fino ai costi ‘spaziali’ di portare lassù migliaia di tonnellate di pannelli. Vedremo se prima o poi qualche prototipo dimostrerà la fattibilità di questo approccio”, dice l’ingegnere.
Più modestamente ad Astradyne intanto pensano a innovare il supporto e dispiegamento dei pannelli in orbita.
“In genere i pannelli dei satelliti sono montati su supporti multistrato di alluminio e plastiche speciali a nido d’ape. Questo aggiunge peso e costo. Abbiamo ideato un supporto fatto da fibre tessili sintetiche ad alta resistenza, che pesa il 60% meno dei supporti tradizionali e si può piegare, con le celle montate sopra, a fisarmonica”, spiega l’esperto di Astradyne.
In sintesi, una volta nello spazio, un tirante che tiene il pannello compresso si rompe, e questo si distende automaticamente, senza necessità di meccanismi di dispiegamento.
“Il prossimo anno un piccolo satellite sperimentale cubesat 3U, porterà il nostro dispositivo in orbita. Se, come crediamo, tutto filerà liscio, e i pannelli ‘origami’ dimostreranno di potersi dispiegare senza problemi e di alimentare il nostro satellite come quelli convenzionali, si aprirà un grande mercato per il nostro dispositivo, ora che lo spazio sta diventando un terreno di competizione commerciale, e ogni innovazione volta a far risparmiare peso e costi per lanci e satelliti, sarà avidamente ricercata”, conclude Troise.The post Cosa possiamo imparare dal fotovoltaico spaziale first appeared on QualEnergia.it.