Cina, è guerra ai dazi di Trump: dopo le ritorsioni pensa a un’alleanza con i Paesi Ue e asiatici per colpire Washington
“Adotteremo contromisure per salvaguardare i nostri diritti e interessi”. Lo aveva detto e lo ha fatto, la Cina. All’indomani dei dazi di Donald Trump, Pechino ha annunciato una raffica di ritorsioni: tariffe speculari del 34% su tutte le importazioni dagli Usa, divieto all’export su sette terre rare e sospensione dell’import di alcuni prodotti agricoli e […] L'articolo Cina, è guerra ai dazi di Trump: dopo le ritorsioni pensa a un’alleanza con i Paesi Ue e asiatici per colpire Washington proviene da Il Fatto Quotidiano.

“Adotteremo contromisure per salvaguardare i nostri diritti e interessi”. Lo aveva detto e lo ha fatto, la Cina. All’indomani dei dazi di Donald Trump, Pechino ha annunciato una raffica di ritorsioni: tariffe speculari del 34% su tutte le importazioni dagli Usa, divieto all’export su sette terre rare e sospensione dell’import di alcuni prodotti agricoli e avicoli. Non solo. Ha anche inserito 11 aziende statunitensi nella “lista delle entità inaffidabili“, interdette a fare affari con la Cina, mentre ad altre 16 sarà proibito acquistare beni a duplice uso. Indagini antitrust e anti-dumping preludono all’imposizione di ulteriori provvedimenti nei settori chimico e delle scansioni medicali. Il tutto nell’attesa che l’Organizzazione mondiale del commercio – a cui Pechino si è appellata – valuti la manovra tariffaria del presidente americano.
La Cina abbandona così la cautela mostrata finora, anche a costo di rischiare un’escalation. Sommati ai vecchi, i nuovi dazi americani portano l’aliquota totale contro la Repubblica popolare intorno al 75%, che potrebbe salire al 79% nel caso si concretizzassero anche le misure sul petrolio venezuelano, di cui è la principale acquirente. L’inquilino della Casa Bianca ha anche firmato un ordine esecutivo che interrompe le esenzioni per le importazioni sotto la soglia “de minimis” (800 dollari), sfruttata dalle piattaforme di e-commerce cinese Temu e Shein.
Pechino non poteva non intervenire. Se non altro per una questione di orgoglio. “Una cosa è sempre più chiara, questa amministrazione statunitense considera la coercizione economica semplicemente come una strategia vincente. Le concessioni non possono che incoraggiare la sua propensione al bullismo“, avvertiva giovedì il quotidiano del partito People’s Daily. Insomma, la speranza di riuscire a far ragionare Trump comincia a svanire. Non essere sola a combattere, d’altro canto, sta incoraggiando la Cina ad alzare il tiro. Ma qualsiasi contromossa deve tenere conto dello stato non ottimale dell’economia nazionale, scesa al 5% e ancora compromessa dagli smottamenti del settore immobiliare. Una spirale tariffaria metterebbe in fuga le aziende straniere che il presidente Xi Jinping solo pochi giorni fa, al Boao Forum, ha corteggiato nella speranza di riportare gli investimenti nel Paese.
A ben vedere, in realtà, la strategia bulldozer di Pechino tiene conto di molteplici fattori, interni ed esterni. Se da una parte prevede l’impiego di “controdazi”, dall’altra punta a massimizzare le misure già in cantiere per corazzare il paradigma di sviluppo cinese: stimoli fiscali per aumentare i consumi interni e agevolazioni per gli investimenti privati – soprattutto nel settore tecnologico – renderanno l’economia meno esposta alle scosse internazionali. Per quanto qualsiasi ritocco strutturale sarà limitato dalla natura export-driven del business model cinese. Lo sanno bene a Pechino, dove per sostenere le esportazioni la Banca Centrale nella giornata di giovedì ha indebolito il tasso di riferimento per lo yuan a 7,1889 per dollaro.
Resta poi l’opzione del “wu wei”, il principio taoista del “non agire”: ovvero lasciare che le tariffe sprigionino l’atteso effetto boomerang, compromettendo la crescita americana. L’impopolarità della politica economica di Trump rappresenta di per sé una vittoria cinese. Peraltro, non è solo tra i cittadini americani che il presidente riscuote critiche. Se durante il primo round della trade war la Cina era il “nemico”, oggi è in buona compagnia. Che le tariffe Usa diventino una carta diplomatica? Non è escluso che Pechino proverà a giocarla con i partner europei e asiatici, scioccati dal tradimento di The Donald. Il ministero del Commercio cinese ha dichiarato giovedì che i colloqui con Bruxelles sui veicoli elettrici cinesi – sottoposti lo scorso anno a tariffe Ue – riprenderanno “il prima possibile”. Ma è soprattutto al resto dell’Asia, l’area del mondo più colpita dai dazi americani, che proverà a tendere la mano Pechino.
Giappone e Corea del Sud, a cui Trump ha comminato aliquote del 24% e 25%, solo pochi giorni fa hanno concordato con la Cina di rafforzare congiuntamente le catene di approvvigionamento globali. Anche in settori strategici come i semiconduttori che l’amministrazione Biden ha sottoposto a ripetute restrizioni, senza tuttavia ricevere il pieno supporto dei produttori asiatici. Seul ha dichiarato di considerare l’annuncio dei dazi di Trump “un’emergenza nazionale”. Per il Giappone, è necessario “un approccio attento, ma audace e veloce”. Chiede invece “chiarimenti” Taiwan che ha definito la decisione del presidente americano “irragionevole“. Tanto più dopo i 100 miliardi di dollari offerti dal colosso taiwanese TSMC per produrre chip negli Stati Uniti.
Con dazi del 46%, 48% e 49%, Vietnam, Laos e Cambogia sono i tre Paesi puniti più duramente dall’inquilino della Casa Bianca. Schiacciati da una manovra che, in realtà, ha per obiettivo il rimpatrio delle multinazionali americane. Quelle emigrate nel Sud-Est asiatico durante la prima trade war proprio per diversificare la produzione fuori dalla Cina. La visita era già in programma, ma l’imminente arrivo di Xi ad Hanoi e Phnom Penh non potrà, a questo punto, prescindere da un confronto reciproco sulle misure di Trump. Tema solo fino a pochi giorni fa lontano dai radar dei due paesi Asean. Sfilarsi dal soffocante abbraccio cinese richiede una maggiore equidistanza da Washington, ora più difficile da raggiungere.
Non è solo nel vicinato più amichevole che Pechino sta capitalizzando gli inciampi di Trump. Anche Nuova Delhi (schiaffeggiata con tariffe del 27%), dopo il ricambio alla Casa Bianca, ha accettato di congelare le ostilità lungo il confine condiviso con la Cina. Addolcendo i toni, recentemente Xi ha fatto notare come l’India condivida con la Repubblica popolare un’antica civiltà e l’appartenenza al Sud del mondo, status che – sembra suggerire il leader cinese – la rende un “intruso” nel Quad e le altre consorterie a guida statunitense.
Va detto, il mal comune non è garanzia di gaudio né tantomeno di successo. Nel fare quadrato contro The Donald, l’Asia emergente può optare per consolidare ed espandere i partenariati economici regionali, come la Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP). Ma è altrettanto possibile che il ricatto di Trump divida, invece di unire, il Sud globale. Paesi come Vietnam, Giappone, Israele e India hanno offerto al presidente americano di ridurre le proprie tariffe doganali, invece di contrattaccare.
D’altronde, quella per la sovrapproduzione industriale cinese è una preoccupazione ampiamente condivisa, da Nord a Sud. “Cominceremo subito ad aumentare la nostra sorveglianza sulla sovracapacità nei mercati globali”, ha reso noto un funzionario Ue commentando le tariffe a stelle e strisce. A febbraio, per ammansire Trump, il Messico ha proposto di allineare ai dazi americani le proprie barriere commerciali contro la Cina. Persino in Russia l’export di auto cinesi comincia a trovare i primi ostacoli. Se non è una garanzia nemmeno “l’amicizia senza limiti” tra Putin e Xi, allora cosa lo è?
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