Attraversiamo Gerusalemme Est tra avvisi di sfratti e demolizioni. Intorno bambini che giocano tra le macerie
Secondo il diritto internazionale, Gerusalemme Est è un territorio occupato da Israele dal 1967, quando fu conquistata durante la Guerra dei Sei Giorni. Questo status è stato ribadito da diverse risoluzioni delle Nazioni Unite, che affermano che Israele non ha sovranità legale su questa parte della città e che ribadiscono il diritto dei palestinesi su […] L'articolo Attraversiamo Gerusalemme Est tra avvisi di sfratti e demolizioni. Intorno bambini che giocano tra le macerie proviene da Il Fatto Quotidiano.

Secondo il diritto internazionale, Gerusalemme Est è un territorio occupato da Israele dal 1967, quando fu conquistata durante la Guerra dei Sei Giorni. Questo status è stato ribadito da diverse risoluzioni delle Nazioni Unite, che affermano che Israele non ha sovranità legale su questa parte della città e che ribadiscono il diritto dei palestinesi su Gerusalemme Est.
Nel 1980, Israele ha approvato una legge che dichiarava Gerusalemme la sua capitale “completa e unita”. Questa decisione è stata condannata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, in particolare con la Risoluzione 478, che ha dichiarato l’annessione illegale e ha invitato gli Stati membri a non riconoscerla.
La storia di Sheikh Jarrah è il primo simbolo della resistenza contro l’espropriazione e la colonizzazione che incontriamo nella missione. Questo quartiere di Gerusalemme Est abitato da sempre da famiglie palestinesi, fu prima evacuato e poi ripopolato dopo la Nakba del 1948, quando centinaia di migliaia di palestinesi furono costretti a lasciare le loro case in tutta la Palestina durante la creazione dello Stato di Israele.
Ai residenti che si stabilirono a Sheik Jarrah dopo il 1948 il governo giordano, che aveva il controllo dell’area, garantì un complicato accordo che prevedeva che entro alcune decine di anni sarebbero diventati a tutti gli effetti proprietari dei terreni su cui erano state costruite le loro case.
Entriamo in un cortile pieno di fiori, un piccolo eden ma immerso nel conflitto. La limonata che ci offre la padrona di casa – che non chiamerò per nome per non darle più problemi di quelli che ha già – ci riporta indietro nel tempo. Le famiglie palestinesi che vivono a Sheikh Jarrah considerano le loro case un diritto acquisito, costruite con il supporto dell’Unrwa e della Giordania negli anni successivi alla Nakba.
Peccato che dopo anni e anni queste famiglie non abbiano ottenuto i documenti promessi per avere la piena legittimità sulle loro case. Intanto, i coloni ebrei appartenenti a un’associazione radicale religiosa rivendicano invece la proprietà di quei terreni sulla base di documenti risalenti all’Ottocento, che i residenti non esitano a definire ‘falsificati’. Tutto ciò è diventato uno dei simboli dell’ingiustizia patita dai palestinesi, a cui Israele nega il diritto al ritorno, ovvero il diritto di recuperare le loro proprietà perdute a fronte della creazione dello Stato di Israele.
Sheikh Jarrah è diventato un punto focale per le proteste contro le politiche israeliane a Gerusalemme Est, viste come parte di un piano più ampio per ridurre la presenza palestinese nella città. Le famiglie palestinesi sfrattate o minacciate di sfratto lottano per la loro identità e dei loro diritti.
Le proteste contro gli sfratti sono state spesso represse con forza dalle autorità israeliane, alimentando un senso di oppressione tra i residenti palestinesi. Entriamo in una casa dove un signore ci spiega che dopo averla costruita la Corte suprema gli ha mandato un colono nella parte dove viveva la sua mamma appena deceduta. Da quando il colono J è arrivato nulla è come prima, la sua parte è ridotta come una discarica e non passa giorno che non ci sia uno screzio o una minaccia tra i due.
Per i palestinesi Sheikh Jarrah rappresenta non solo una battaglia per le case, ma anche una lotta contro un processo sistematico di espropriazione e marginalizzazione. Dopo le proteste del 2021, centinaia di manifestazioni anche con la presenza di diversi attivisti, cittadini e associazioni israeliane, la questione ha attirato l’attenzione internazionale.
Il 7 ottobre 2023 ha reso tutto più difficile e ce ne accorgiamo ancora di più spostandoci in un altro quartiere altrettanto martoriato. Il conflitto ha offerto a Israele un’opportunità per ulteriori manovre in un’area chiave come Silwan. Nel mese di luglio scorso, il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha autorizzato lo sfratto di 87 famiglie dalle loro abitazioni, coinvolgendo complessivamente 680 palestinesi.
A novembre 2024, mentre Gaza e il Libano erano colpiti da raid aerei e piogge di missili, i bulldozer sono tornati in azione nel quartiere. Nel cuore di Gerusalemme, all’ombra delle mura di Solimano, hanno demolito non solo una casa palestinese, ma anche un luogo simbolico che abbiamo trovato tra le macerie: un giardino per ragazzi, fulcro dell’ong Al Bustan.
Da oltre quindici anni, questa organizzazione lotta contro l’espulsione di decine di famiglie palestinesi, ostacolate dall’espansione del parco archeologico della “Città di Davide”. Questo progetto, fortemente sostenuto dalla destra nazionalista israeliana, è visto come un simbolo dell’affermazione di un’identità esclusivamente ebraica di Gerusalemme.
Attraversiamo Silwan tra avvisi di demolizione e bambini e bambine che giocano tra macerie e i rottami del loro vecchio parco giochi. Ci chiedono tutte e tutti di fare una foto, inviarla in Italia e poi cancellarla per la paura di repressioni. Ci chiedono di tornare ma soprattutto di raccontare al mondo che loro vogliono la vita e non la morte. Né la loro né quella dei loro oppressori. L’unica cosa che possiamo promettere e che ce la metteremo tutta, che la missione Occhi in Palestina serve proprio a questo, e che non li lasceremo mai soli.
Qui la prima puntata del diario sulla missione Occhi in Palestina
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