Andreas Malm a TPI: “Ecco perché distruggere la Palestina vuol dire distruggere il Pianeta”
Professor Malm, il suo ultimo libro si intitola “Distruggere la Palestina, distruggere il Pianeta”. Che relazione c’è tra i due processi? «Si può affrontare la questione palestinese da diverse angolazioni ma quella che ho scelto riguarda il ruolo dei combustibili fossili nella storia della colonizzazione della Palestina». La sua analisi comincia addirittura dalla metà dell’Ottocento. […]

Professor Malm, il suo ultimo libro si intitola “Distruggere la Palestina, distruggere il Pianeta”. Che relazione c’è tra i due processi?
«Si può affrontare la questione palestinese da diverse angolazioni ma quella che ho scelto riguarda il ruolo dei combustibili fossili nella storia della colonizzazione della Palestina».
La sua analisi comincia addirittura dalla metà dell’Ottocento.
«La prima aggressione britannica contro la Palestina risale al 1840 (durante la guerra contro il padre fondatore dell’Egitto moderno Muhammad Ali Pascià, ndr) e fu anche il primo episodio in cui furono schierate in un conflitto di vasta portata navi militari a vapore, una tecnologia cruciale basata sul carbone, molto importante per la diffusione di questo combustibile in tutto il pianeta. Non è difficile notare come il controllo imperiale del Medio Oriente sia legato alla centralità di questa regione in termini di combustibili fossili».
Cosa c’entra con Israele e con lo scenario attuale?
«Il 1840 fu anche l’anno in cui furono concepite e presentate le prime idee sioniste mentre il controllo imperiale del Medio Oriente ruota ancora oggi interamente attorno allo Stato di Israele come avamposto occidentale che, in un modo o nell’altro, combatte contro quasi tutti i Paesi confinanti: Siria, Libano, la Palestina stessa, lo Yemen e in prospettiva l’Iran. Tutto ciò in pieno coordinamento con gli Stati Uniti».
Una vicenda che dura quindi da quasi due secoli?
«Per parlare dell’invasione dell’Occidente in Medio Oriente potremmo ricordare la spedizione francese di Napoleone in Egitto o risalire addirittura ai tempi delle Crociate ma queste iniziative si sono esaurite. Dal 1840, invece, il tentativo di controllo imperiale della regione, prima britannico e poi sotto varie forme occidentale, non si è mai fermato. Da allora, l’articolazione tra la colonizzazione della Palestina e l’invasione del Medio Oriente da parte dell’Occidente e la diffusione planetaria dei combustibili fossili ha assunto varie forme. Naturalmente, con molte differenze».
Quali?
«Una differenza fondamentale, se si guarda a quanto accaduto nel 1840, è che a quel tempo il Medio Oriente non costituiva ancora una fonte interessante di combustibili fossili: il carbone che l’impero britannico usò per distruggere Ali Pascià, ad esempio, proveniva dalle miniere della Gran Bretagna. Ma anche il ruolo della regione come fonte di petrolio è cambiato nel tempo: oggigiorno, infatti, non costituisce un fornitore per gli Stati Uniti, che ormai figurano tra i maggiori produttori mondiali di petrolio e gas. Tuttavia il Medio Oriente resta assolutamente centrale per l’economia dei combustibili fossili in generale e per il potere imperiale statunitense in particolare, basti pensare ai petrodollari e al ruolo fondamentale della valuta degli Stati Uniti per il commercio di materie prime energetiche, che costituisce una delle basi più importanti del dominio finanziario americano».
E l’Europa?
«Israele è perfettamente integrato nelle filiere di approvvigionamento, anche militari, legate all’Occidente. Acquista, ad esempio, armi da Stati Uniti, Germania, Italia, Francia, Regno Unito e altri Paesi occidentali. Inoltre il carburante che alimenta gli aerei impegnati a bombardare Gaza proviene dalle raffinerie del Texas».
Qual è la relazione con il cambiamento climatico?
«La continuità è estrema: dopo tutto questo tempo il principale fornitore di petrolio di Israele è ancora la British Petroleum, che con l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan pompa il greggio estratto in Azerbaigian attraverso la Georgia e la Turchia per poi trasportarlo via mare in Palestina. Materialmente e tecnologicamente parlando, Israele è del tutto integrato nelle filiere dei combustibili fossili e delle tecnologie avanzate, comprese ovviamente quelle militari, sostenute dall’impero capitalista occidentale. E questo era l’accordo fin dall’inizio».
Ci spieghi.
«L’occupazione e la colonizzazione della Palestina non sono state avviate dal movimento sionista o da Israele ma dall’impero britannico. Soltanto dopo il sionismo prese il sopravvento, realizzando il medesimo programma. Lo Stato di Israele è il risultato di questa colonizzazione occidentale della Palestina. È impressionante: di recente ho letto il libro di Matthew Hughes intitolato “Britain’s Pacification of Palestine” (Cambridge University Press, 2019) su come l’impero britannico affrontò la Grande rivolta araba in Palestina tra il 1936 e il 1939. Ci sono così tante somiglianze con quanto sta succedendo oggi».
Ce le illustri.
«Allora l’occupazione britannica distrusse intere città, come Jenin, anche oggi una delle roccaforti della rivolta. La resistenza fu spazzata via facendo saltare in aria interi villaggi o massacrando i civili. Arrestavano e torturavano le persone. Qualcosa di molto simile accade ancora nel carcere di Sde Teiman, in Israele, ed è possibile considerare gli eventi attuali come una continuazione di quanto già avvenuto in quel periodo».
Ma la situazione in Israele è diversa oggi.
«È peggio perché allora non c’era alcuna espressione di intenti genocidi. Le autorità di occupazione britanniche negli anni Trenta non si proponevano di distruggere fisicamente i palestinesi a Gaza, come abbiamo sentito da alcuni esponenti dell’attuale governo di Israele. Ma ciò che sta accadendo ora è il risultato di un lunghissimo processo di sottomissione della Palestina prima da parte britannica, poi americana e, in generale, occidentale. Di nuovo, nella forma e nella struttura, è molto simile al modo in cui si è sviluppata la crisi climatica».
Come?
«Tutto è cominciato in Gran Bretagna e poi si è diffuso in altre parti del mondo. Quindi gli Stati Uniti hanno preso il sopravvento e questo fenomeno, sull’onda del processo di accumulazione capitalistica, non ha fatto altro che crescere fino ad oggi».
Che intende?
«Come in Palestina così in materia ambientale non ci sono più inibizioni, né limiti. L’idea è dare il via libera a tutto: Israele può fare quello che vuole e i colossi energetici possono dare liberamente la caccia a tutti gli ultimi combustibili fossili rimasti in Alaska od ovunque altro possano trovarli. I due fenomeni si somigliano e viaggiano su binari paralleli, peggiorando continuamente. È come una palla di neve messa in moto nel XIX secolo su entrambi i fronti, che continua a rotolare verso una produzione infinita di disastri e distruzione».
Ci fa un esempio concreto?
«Mi riferirò a un articolo pubblicato recentemente sul quotidiano britannico The Guardian dal giornalista e regista Yuval Abraham sul ruolo di Microsoft, che sviluppa la piattaforma di cloud computing Azure. Secondo i documenti trapelati alla stampa, questo programma è stato utilizzato dalle forze armate e dai servizi di Israele per supportare attività di combattimento e di intelligence. Lo stesso sistema viene venduto da Microsoft anche alle compagnie petrolifere per identificare meglio i nuovi giacimenti da sfruttare. Si possono individuare tecnologie specifiche prodotte in Occidente e impiegate per accelerare tanto l’estrazione di combustibili fossili quanto l’uccisione dei palestinesi. Usano esattamente gli stessi servizi per entrambi gli scopi».
Lei nel suo libro parla di “tecno-genocidio”.
«Esiste da tempo una crescente integrazione tra la Silicon Valley, nelle sue varie forme, e l’industria bellica. In questo contesto Israele svolge un ruolo particolare: il libro “Laboratorio Palestina” di Antony Loewenstein (Fazi, 2024) mostra come lo Stato ebraico, che in qualità di avamposto occidentale in Medio Oriente si trova costantemente a combattere i suoi vicini, produca molta esperienza sul campo di battaglia, poi re-immessa in Occidente. Pensi a tutte le tecnologie di sorveglianza, i droni, le capacità di intelligence esportate da Israele in Europa e negli Stati Uniti. Dopo il 7 ottobre 2023 questo rapporto sembra essersi intensificato e con la generale deriva a destra della Silicon Valley il fenomeno probabilmente proseguirà. Ma la dialettica tra militarizzazione e tecnologia digitale è piuttosto preoccupante anche quando si parla di politica climatica. Basti pensare alla nascente geoingegneria solare (una tecnica che punta alla riduzione dell’assorbimento della radiazione solare attraverso la modifica dell’albedo terrestre, ndr)».
Cosa c’entra?
«La prima startup al mondo che sta conducendo esperimenti concreti di iniezioni di aerosol nella stratosfera è l’israeliana Stardust Solutions, che è direttamente collegata all’esercito dello Stato ebraico».
In che modo?
«L’azienda usa aerei provenienti dall’Aeronautica militare israeliana per condurre questi esperimenti. È preoccupante che il primo tentativo di realizzare una nuova tecnica volta ad arrestare l’aumento delle temperature avvenga proprio dove e quando jet simili bombardano le persone. Ma questo è solo un altro esempio della militarizzazione delle tecnologie più avanzate. Come dicevo, oggi non ci sono più limiti».
Sta parlando di Donald Trump?
«Mi riferisco agli Stati Uniti dove, ancora una volta, le somiglianze sul fronte climatico e palestinese sono impressionanti, anche se non riguardano solo gli ultimi tre mesi».
Ci dica.
«Malgrado la retorica e alcuni provvedimenti volti a promuovere le fonti rinnovabili, Joe Biden ha accelerato l’ascesa degli Stati Uniti in termini di produzione di petrolio e gas. Poi, proprio come fece nel 2016, quando è tornato alla Casa bianca Trump ha subito demolito qualsiasi barriera ai combustibili fossili, ostacolando lo sviluppo dell’energia solare ed eolica, ritirando unilateralmente gli Usa dagli Accordi di Parigi e muovendo guerra alla climatologia. Ma è solo un’intensificazione di quanto già fatto da Biden ed è lo stesso per la Palestina».
Ossia?
«Biden ha aiutato fin dall’inizio (il premier israeliano Benjamin, ndr) Netanyahu nel genocidio e adesso Trump ha spinto la guerra ancora più in là dando carta bianca allo Stato di Israele e prospettando la deportazione della popolazione palestinese al di fuori della Striscia. Così, bloccando l’afflusso di aiuti umanitari e interrompendo le forniture di elettricità e acqua, l’esercito israeliano sta rendendo la vita impossibile alla popolazione, una strategia volta a spingere i residenti ad andarsene. Tanto che Israele sta istituendo un dipartimento per l’organizzazione della migrazione volontaria da Gaza. Ovviamente non c’è nulla di volontario, così come questo obiettivo non rientra tra gli scopi bellici dichiarati. Da quando però Trump ha lanciato il suo cosiddetto Piano “Riviera” esponenti del governo israeliano sono stati sempre più espliciti nel loro intento genocida. Ma, sia sul fronte climatico che su quello palestinese, il presidente Usa sta semplicemente eliminando ogni finzione che mascherava l’obiettivo della distruzione totale».
Lei è stato accusato di giustificare la violenza politica e terroristica.
«Il mio sostegno alla resistenza palestinese si basa esclusivamente e fondamentalmente sul diritto. I palestinesi sono esseri umani come tutti gli altri, hanno il diritto di restare nella terra in cui vivono e di tornare nei luoghi da cui sono stati espulsi a partire dal 1948. Tutti coloro che vivono, come si dice, “tra il fiume (Giordano, ndr) e il mare (Mediterraneo, ndr)” devono essere trattati allo stesso modo. Penso che uno Stato istituito su quella terra debba essere aperto a tutti coloro che ci vivono, che siano ebrei, arabi o altro. Credo che la supremazia ebraica sul popolo palestinese debba finire. La resistenza palestinese è l’espressione delle aspirazioni di un popolo a liberarsi da un’oppressione infinita, ormai diventata genocida».
Quindi non c’è spazio per la soluzione dei due Stati?
«Guardi, per fare di nuovo un parallelo con la crisi climatica, è un po’ come l’obiettivo di limitare a 1,5 °C la soglia di riscaldamento medio globale».
In che senso?
«Il limite ormai è stato superato, siamo già oltre la soglia di +1,5 °C. Forse possiamo riportare le concentrazioni di anidride carbonica a livelli sufficientemente contenuti da limitare il rialzo delle temperature. Lo stesso vale per l’idea di uno Stato palestinese a Gaza e in Cisgiordania».
Si spieghi meglio.
«Queste due aree, dove dovrebbero sorgere le fondamenta di uno Stato indipendente, sono state fisicamente distrutte. La Striscia è stata polverizzata mentre la Cisgiordania è ovunque piena di insediamenti illegali che renderanno impossibile una continuità territoriale finché questi avamposti esisteranno come colonie esclusivamente ebraiche. In questo modo la formazione di qualsiasi forma di Stato indipendente, seppur collegata a Gaza e alla Cisgiordania, non è possibile. La soluzione dei due Stati è quindi obsoleta. Ma, come l’obiettivo di limitare a 1,5 °C la soglia di riscaldamento medio globale, questo non significa che sia tecnicamente impossibile».
Come si potrebbe realizzare?
«Bisognerebbe smantellare fisicamente tutti gli insediamenti illegali e consegnare l’intero territorio ai palestinesi. Richiederebbe enormi lavori di de-costruzione in Cisgiordania e di ricostruzione a Gaza. Ma non è un problema fisico».
Cioè?
«Il comportamento di Israele dimostra ogni giorno che non può coesistere con nulla che assomigli a uno Stato palestinese. Nella sua forma attuale non può convivere nella stessa terra con il popolo palestinese se non sottomettendolo, dominandolo e, in ultima istanza, distruggendolo. L’unico modo in cui il popolo palestinese può continuare a esistere nella sua patria sembra essere quello di trasformare la struttura di questo Stato in uno aperto a tutti i popoli che vivono in quel territorio».
Uno Stato unico, quindi?
«È l’orizzonte generale. Un’idea sostenuta anche da alcuni grandi intellettuali ebrei negli Stati Uniti, come Peter Beinart che ha appena scritto un libro intitolato “Essere ebrei dopo la distruzione di Gaza” (Baldini + Castoldi, 2025)».
Come si può raggiungere questo obiettivo?
«Abbiamo bisogno di un accordo politico che tratti tutti come esseri umani allo stesso livello. Non può più essere vero che i cittadini ebrei siano superiori ai palestinesi».