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Naomi Klein: di fronte a Istraele e Gaza “l’unica leadership morale emergente è quella dei movimenti”

La scrittrice, giornalista e attivista canadese Naomi Klein, nel febbraio 2024, in un ispirato intervento al festival londinese “And still we rise” (pubblicato due mesi dopo sul numero 1558 di Internazionale), ha messo a fuoco un punto cruciale, riflettendo sulla «coesione suscitata fra le élite politiche del Nord del mondo dalla carneficina attuata dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza».
Klein ha detto che di fronte a governi e leader politici che abbandonano le loro differenze (destra, estrema destra, centro, centrosinistra) per unirsi nel sostegno attivo a Israele e ai crimini del suo esercito, l’unica leadership morale emergente è quella dei «movimenti per una vera uguaglianza, per la giustizia sociale, antirazzista, di genere, economica e ambientalista, movimenti esistenti in ogni Paese».
La determinazione a impegnarsi ancora di più in questi movimenti, ha aggiunto Klein, è la reazione suscitata in lei dall’orrore provato per gli attacchi a Gaza e ciò che ne è seguito: non solo la morte di decine di migliaia di persone, ma anche il giubilo dei soldati israeliani, l’acquiescenza della società israeliana, i divieti di manifestare per la Palestina, il tabù attorno alla nozione di genocidio, l’ottusità dei commentatori, l’emarginazione dei giornalisti onesti.
Di fronte al “tradimento” delle élite – tradimento, si intende, dei valori umanitari, del rispetto della verità storica, del diritto e del principio di uguaglianza – secondo Klein «possiamo contare solo sui nostri movimenti e sul potere che costruiamo insieme. Possiamo contare solo sulla nostra solidarietà, la nostra determinazione, la nostra volontà». Klein offre dunque una risposta, attraverso un cambio di prospettiva, al senso di vergogna e alle angosce da cui siamo partiti. Ci siamo chiesti come reagire alla paralisi che prende, nel mezzo della commemorazione di un eccidio nazifascista compiuto 80 anni prima, al pensiero che stiamo assistendo complici e silenti a simili e anche più intensi e feroci massacri compiuti oggi anche per nostro conto. Moltiplicando l’impegno nei movimenti sociali, risponde Klein, e spostando lo sguardo e l’attenzione dal potere istituzionale alla leadership morale e politica che nasce dal basso, nelle lotte sociali popolari, «nell’impegno comune nei confronti del valore della vita» (ancora Klein), nel pensiero elaborato fuori dalle cerchie accademiche, culturali e giornalistiche occupate stabilmente dalle vecchie élite. È nei movimenti, oggi, che viene custodita la fiducia in un avvenire di giustizia aperto a tutti, mentre la postura escludente e claustrofobica assunta dalle democrazie occidentali sta tradendo tutte le principali conquiste del secondo Novecento.
I movimenti sono stati sempre considerati come l’espressione di fermenti ora vitali e positivi, ora eccessivi e pericolosi, ma sempre laterali rispetto al corso principale della storia, scandito dai fatti, dalle azioni, dalle scelte compiute dalle élite istituzionali: parlamenti e governi, presidenti e ministri, leader politici famosi. È il momento di cambiare prospettiva e di considerare quante volte, quanto spesso, movimenti sociali, collettivi di lotta, gruppi di cittadini abbiano esercitato una funzione effettiva, per quanto disconosciuta, di leadership morale e politica nell’interesse della comunità e con apertura profetica al futuro.
Pensiamo al campo del pacifismo. Al crepuscolo della Guerra fredda, quando l’equilibrio del terrore fra grandi potenze nucleari si preparava a lasciare spazi aperti per un nuovo paradigma nella politica internazionale, i movimenti pacifisti europei, guardando lontano, si mobilitarono per rilanciare il disarmo nucleare e invocare il superamento della Nato, in parallelo allo scioglimento del Patto di Varsavia che legava in un’alleanza militare l’Unione sovietica e i Paesi europei suoi satelliti. Era una prospettiva che prefigurava un comune percorso europeista oltre la cortina di ferro, fino alla Russia, in sintonia con un vecchio slogan che immaginava un’Europa «dall’Atlantico agli Urali», come ebbe a dire per primo negli anni Cinquanta il generale Charles de Gaulle (la sua, naturalmente, era però un’Europa delle Nazioni, possibilmente a guida francese) e più tardi Giovanni Paolo II e altri.
Il disarmo nucleare, il superamento del conflitto con i Paesi dell’Est europeo, la ricerca di nuove forme di collaborazione erano posizioni avanzate, bollate subito di irrealismo se non utopismo, ma erano in realtà possibili: dopotutto gli accordi di Helsinki sulla cooperazione e la sicurezza in Europa, firmati nel 1975, avevano già aperto un varco, visto che erano stati stipulati in un inedito clima di collaborazione dagli Stati Uniti e dai suoi principali alleati europei, insieme all’Unione sovietica e altri Paesi dell’Est Europa.
In quel momento storico, il movimento pacifista si era fatto effettiva classe dirigente: stava enucleando un nuovo percorso geopolitico, del tutto praticabile e sul quale sarebbe stato possibile raccogliere ampio consenso nelle popolazioni europee. Le élite politiche scelsero altrimenti, il disarmo nucleare fu accantonato, la Nato non fu smantellata e anzi cominciò un suo pericoloso allargamento a Est, culminato con la crisi in Ucraina degli anni Dieci di questo secolo.