1° maggio, passi indietro su salari e condizioni di vita: non c’è democrazia senza liberazione del lavoro
Quando faccio la spesa del sabato nei supermercati di Brescia, dove vivo da decenni, mi capita spesso di incontrare operai degli anni Settanta e Ottanta, ora in pensione. ‘Ma sei Cremaschi? Ti ricordi di me? Quante lotte abbiamo fatto, non un mese con la busta paga piena. Ma ne valeva la pena e sai perché? […] L'articolo 1° maggio, passi indietro su salari e condizioni di vita: non c’è democrazia senza liberazione del lavoro proviene da Il Fatto Quotidiano.

Quando faccio la spesa del sabato nei supermercati di Brescia, dove vivo da decenni, mi capita spesso di incontrare operai degli anni Settanta e Ottanta, ora in pensione. ‘Ma sei Cremaschi? Ti ricordi di me? Quante lotte abbiamo fatto, non un mese con la busta paga piena. Ma ne valeva la pena e sai perché? Perché il padrone allora ci rispettava, mentre oggi i giovani al lavoro non contano nulla, abbiamo perso tutto’.
Quante volte mi sono sentito ripetere queste parole, e non solo da delegati sindacali particolarmente impegnati negli anni in cui sono stato nella Fiom di Brescia: anche da persone di cui non mi ricordavo. Credo che questo commento sia il giudizio collettivo di una generazione operaia, che aveva conquistato potere e rispetto. E che, come me, fa fatica non solo ad accettare, ma persino a concepire quanto oggi il mondo del lavoro sia tornato indietro. Indietro sui salari, sulle condizioni sociali e di vita, nella stessa libertà.
Oggi ogni rapporto di lavoro è oppresso da un potere autoritario e dispotico, di cui variano solo le gradazioni. Quando una telecamera va davanti ad una fabbrica per intervistare gli operai sulle loro condizioni c’è un fuggi fuggi e chi resta per parlare chiede l’oscuramento e l’anonimato. Come avveniva nei paesi di mafia: non so niente e se so qualcosa preferisco non dirlo perché rischio troppo.
Oggi gli operai parlano liberamente solo quando la loro azienda chiude. Allora sì, li sentiamo inveire contro il padrone che li lascia in mezzo alla strada. Troppo tardi.
Ma non solo gli operai: ovunque le lavoratrici e i lavoratori, di qualsiasi categoria e professione, hanno perso le libertà della Costituzione. La negazione dei diritti per i lavoratori oggi comincia già con il colloquio per l’assunzione. La prima istruzione per un giovane che cerchi un lavoro è che nel colloquio con il rappresentante dell’azienda deve mostrarsi interessato solo all’impresa. Guai a chiedere quali siano le condizioni contrattuali e in particolare la paga! Non sta bene e dimostrerebbe solo voglia di rompere le scatole, atteggiamento conflittuale, un’offesa alla buone volontà dell’imprenditore: ma come, io ti do il lavoro e tu pretendi anche un salario?
Il Parlamento si è fatto bello approvando una legge a tutela di coloro che denunciano le malefatte delle aziende, whistleblower vengono detti – con il solito inglesismo che da noi imbelletta la realtà. La realtà è invece che i lavoratori sono costretti al silenzio: chi denuncia i rischi per salute e ambiente perde il posto.
Le aziende spiano tutto quello che dicono e fanno i loro dipendenti. Ci sono agenzie investigative che prosperano su questo. Le pagine social di un lavoratore vengono attentamente controllate, per sapere se scrive male dell’azienda. In questo caso ci sono i provvedimenti disciplinari o addirittura il licenziamento. È il vincolo di fedeltà all’impresa, un principio medievale a favore dell’autorità che viene oggi applicato rigidamente, anche dalla magistratura, nei confronti dei dipendenti.
La libertà di pensiero è incompatibile con la competitività d’impresa, e siccome lo stato vuol somigliare all’impresa privata, anche i dipendenti pubblici devono prima di tutto tacere e obbedire. Un insegnante ha ricevuto quattro mesi di sospensione per aver criticato un ministro.
Il dispotismo d’impresa è stato formalizzato da decenni di leggi a favore della cosiddetta “flessibilità del lavoro”, dal pacchetto True al Jobs act di Renzi. E questo regime autoritario è diventato caporalato di stato per i lavoratori migranti. Perché la legge Bossi-Fini non dà in mano al padrone solo il contratto di lavoro, ma anche il permesso di soggiorno. Così se il migrante viene licenziato diventa anche un clandestino, con tutta la sua famiglia.
Ho scritto contratto, ma avrei dovuto usare la parola ricatto. Oggi tutto il mondo del lavoro è in oggetto dello stesso ricatto: o mangi questa minestra o… E il risultato di tutto questo è un sistema di sfruttamento che ha fatto precipitare salari e diritti e crescere omicidi sul lavoro. E per chi si ribella ora ci sono anche le leggi speciali di polizia, come il Decreto Sicurezza.
Giuseppe Di Vittorio negli anni Cinquanta del secolo scorso denunciò l’oppressione padronale contro i lavoratori definendola “fascismo aziendale”. Se la Costituzione non entra nelle fabbriche non c’è neanche nella società, disse allora il leader della Cgil. Poi, grazie a tante lotte, la Costituzione si affermò anche nei luoghi di lavoro, ma dagli anni Ottanta, come mi ricordano gli operai oggi in pensione, ne è stata di nuovo progressivamente espulsa.
Non c’è libertà se chi lavora non è una persona libera e per questo il Primo Maggio oggi è sempre più vicino al 25 aprile. Non c’è democrazia senza lotta di liberazione del lavoro.
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