1° maggio, in Italia la questione salariale rappresenta un gigantesco elefante nella stanza
In Italia la questione salariale rappresenta un gigantesco elefante nella stanza che si fa finta di non vedere: sui giornali fioccano le statistiche, ma senza approfondimento critico e senza indagare le cause; le lavoratrici e i lavoratori si lamentano, ma pochi sono quelli disposti a organizzarsi in maniera conflittuale; i sindacati confederali reclamano aumenti salariali, […] L'articolo 1° maggio, in Italia la questione salariale rappresenta un gigantesco elefante nella stanza proviene da Il Fatto Quotidiano.

In Italia la questione salariale rappresenta un gigantesco elefante nella stanza che si fa finta di non vedere: sui giornali fioccano le statistiche, ma senza approfondimento critico e senza indagare le cause; le lavoratrici e i lavoratori si lamentano, ma pochi sono quelli disposti a organizzarsi in maniera conflittuale; i sindacati confederali reclamano aumenti salariali, ma – quando va bene – firmano rinnovi al di sotto dell’inflazione.
Intanto si registra la completa assenza di manodopera qualificata e non, in più di una filiera produttiva: è un sintomo di una fase critica globale, che rappresenta un problema oggettivo anche per le imprese e il servizio pubblico. Confcommercio ha dichiarato che nel comparto mancano 258 mila addetti tra retail, turismo e ristorazione, mentre nella pubblica amministrazione sono 900 mila le figure professionali che servirebbero.
Ciò nonostante la stessa classe dirigente, che lamenta l’assenza di manodopera, si rifiuta di spartire i guadagni: tra il 2020 e il 2023 il fatturato delle imprese di media e grande dimensione è cresciuto del 34%, ma la quota confluita nei redditi da lavoro è scesa del 12%, mentre la remunerazione degli azionisti è aumentata del 14%. La retribuzione andrebbe garantita in maniera proporzionale al costo della vita, per far fronte al quale non è sufficiente nemmeno il salario minimo, con buona pace delle proposte di legge presentate in Parlamento. Significativa in questo senso la sentenza del Tribunale di Milano che, nel caso delle guardie giurate, ha sollevato la questione del criterio di proporzionalità salariale, garantita dall’art. 36 della Costituzione, superando in fase giudiziale gli esiti della contrattazione sindacale.
Unitamente a questo discorso c’è il problema delle tutele, non garantite a tutte le categorie di lavoratori e lavoratrici, e comunque non allo stesso modo. Basti pensare a chi lavora a chiamata o in staff leasing. Tra i più esposti al lavoro ibrido, iper-precario o saltuario, quando non direttamente al lavoro nero o al caporalato, ci sono donne, giovani e migranti di prima e seconda generazione, senza garanzie e costretti a lavorare in forme contrattuali non standard.
Le assunzioni a tempo indeterminato sono ormai solo il 16% (20% considerando gli apprendisti) e il lavoro autonomo è in crescita del 1,3% rispetto al 2023. In molti casi si tratta di falsi lavoratori autonomi, che lavorano in monocommittenza e dovrebbero essere riconosciuti come lavoratori dipendenti: emblematico è il caso dei rider. Nel 2024 l’Agenzia delle Entrate ha chiuso 6.000 “false” partite Iva. Questo trend ormai confermato da un decennio è la dimostrazione che l’introduzione del Jobs Act, nonché delle norme precedenti per la flessibilizzazione del mercato del lavoro, non sono servite a stabilizzare i rapporti lavorativi, ma hanno avuto l’unico effetto di indebolire il potere contrattuale di tutti i lavoratori.
Precarietà e assenza di strumenti di protezione adeguati: queste sono le ragioni per cui un lavoratore italiano guadagna in media l’8% in meno rispetto a 4 anni fa.
Non c’è dunque da stupirsi se il grado di soddisfazione delle lavoratrici e dei lavoratori italiani è stimato al 43%, lontano dal 59% della media europea. Ciò non dipende solo dalla bassa la remunerazione: a essere tradite sono diverse aspettative del lavoratore, di carattere professionale, personale o riguardanti la conciliazione del tempo di lavoro e di vita; come la possibilità, in base al contesto lavorativo, di poter usufruire del lavoro agile. Tale richiesta, che si è fatta strada dopo la pandemia soprattutto in ambito impiegatizio, in alcuni casi è diventata un requisito fondamentale e una merce di scambio (o di ricatto) con l’azienda.
Rilevante è inoltre il fatto che l’Italia occupi l’ultima posizione tra i paesi del G20 rispetto alla perdita del potere di acquisto dei salari, calcolato attorno all’8,7% nella forbice che va tra il 2008 e il 2024. Un fattore che ha determinato un netto peggioramento delle condizioni di vita, a causa della contrazione dei redditi e dei salari ma anche dell’incisività dei fenomeni inflattivi, a cui si aggiunge l’indebolimento dello stato sociale, il considerevole taglio degli ammortizzatori sociali e l’abolizione del reddito di cittadinanza (sostituito dall’assegno di inclusione e del sostegno di formazione e lavoro), che ha colpito i redditi disponibili di 850 mila famiglie indigenti, le quali hanno perso il beneficio o ricevono molti meno soldi.
Dai dati Istat raccolti per il 2024 quello che emerge è l’aggravarsi del lavoro povero: il 9% di chi presta la sua opera a tempo pieno e il 17% di chi lavora part-time. La povertà lavorativa riguarda soprattutto i lavoratori indipendenti, tra i quali il 17,2% ha redditi inferiori al 60% di quello mediano nazionale. Secondo l’Eurostat le persone in una situazione di indigenza in Italia sono 11 milioni 92 mila. Nel 2024 la quota di popolazione a rischio povertà o esclusione sociale era del 23,1% sulla popolazione totale. Percentuali evidenti che ben descrivono la gravità potenzialmente deflagrante di questa situazione.
Considerate tutte queste ragioni, appare chiaro che siamo di fronte a un cambio di paradigma decisivo, che richiederebbe uno scarto importante, rispetto alle condizioni generali di impoverimento diffuso, in termini di conquiste salariali, sindacali e di accesso al reddito e al welfare universalistico. Una necessità di mobilitazione che mal si adatta rispetto al livello reale di partecipazione e di coinvolgimento diretto di lavoratrici e lavoratori, schiacciati da isolamento, individualismo e disillusione, a cui certo non basta una campagna referendaria ridotta a marketing politico, o peggio, ad allucinazione social al servizio di una costruzione di consenso elettorale per una sinistra in crisi.
Nel gioco di specchi e riflessi, l’elefante resta lì, al centro della stanza, monumentale, maestoso, e ricorda a tutti che non basta fare finta di niente per recuperare il terreno perso. Soprattutto se non si intende fare nulla per resuscitare il grande assente nel dibattito e nella pratica quotidiana odierni: il conflitto. Il conflitto sociale non basta evocarlo per poi nasconderlo dietro a un’incerta indicazione di voto. Nel bene o nel male, rappresenta ancora l’unica vera leva capace di stravolgere gli assetti sociali, l’unico strumento utile che abbiamo per poter vincere tutte le resistenze ideologiche ed economiche attive nel nostro paese: l’unico modo che abbiamo di assicurare un futuro dignitoso a chi vive, approda, lavora e studia sul caro suolo italico.
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