Vi spiego le nuove sfide economiche dell’Europa (e dell’Italia)
Cosa dicono i dati Istat sui conti pubblici italiani e quali saranno le nuove sfide geopolitiche per l'intera Europa. L'analisi di Gianfranco Polillo.

Cosa dicono i dati Istat sui conti pubblici italiani e quali saranno le nuove sfide geopolitiche per l’intera Europa. L’analisi di Gianfranco Polillo
Conti pubblici più che soddisfacenti, crescita economica all’opposto: questo il commento prevalente sui dati appena pubblicati dall’Istat. Il bilancio complessivo dell’anno che ci siamo lasciati alle spalle. Giudizio quindi pressoché unanime: da Carlo Cottarelli, che scrive su il Corriere a Giancarlo Giorgetti che posta sul sito del MEF: “soddisfatti, finanze pubbliche meglio del previsto”. Valutazioni appropriate? Se fossimo in tempi normali, non solleveremmo grandi obiezioni. Ma lo siamo? La geopolitica ci conforta, o non continua a confermarci che molte cose non sono andate, e non stanno andando, per il verso giusto? Ed allora, occorre alzare lo sguardo, per cercare e capire le cause remote che spingono lo stesso Giorgetti a profetizzare: “non possiamo fermarci ora la sfida è la crescita in un contesto assai problematico non solo italiano ma che coinvolge tutta Europa”. Ora? Perché ieri non era altrettanto necessario?
Finora Eurostat ha pubblicato i dati relativi solo ad alcuni Paesi. Manca il dato francese, le cui previsioni sono di una crescita nel 2024 pari allo 0,9 per cento. Se così fosse, i Paesi fondatori dell’UE si troverebbero collocati nelle ultime posizioni, contro una Spagna che ha messo a segno una crescita del 3,6 ed un Portogallo dell’1,9 per cento. L’Italia tra i Paesi con il segno più (Germania e Lettonia sono negativi) si collocherebbe all’ultimo posto. Al tempo stesso se le previsioni di una crescita media europea dello 0,9 per cento si dimostrassero fondate, si dovrebbe prendere atto di un rallentamento complessivo dell’intero Continente che crescerebbe ad un ritmo medio inferiore a quello (tutt’altro che brillante) che si era visto nel periodo compreso tra il 2013 ed il 2019. Segno evidente che la crisi del 2020 (epidemia di Covid), in termini prospettici è tutt’altro che superata. Secondo nostre valutazioni lo scarto sarebbe ancora di 4,6 punti di Pil, nell’intervallo 2020/2024.
Che morale trarre da simili andamenti? Le nuove norme del Patto di stabilità e crescita, com’era prevedibile fin dall’inizio e come era stato previsto, hanno continuato ad esercitare una torsione deflazionistica sulla maggior parte dei Paesi europei. Spagna e Portogallo (quest’ultimo in misura minore) si sono salvati a causa di una persistente situazione di disoccupazione (in Spagna il doppio dell’Eurozona). In entrambi i casi (ma soprattutto per Madrid) elemento traente delle rispettive economie è la domanda estera. Già nel 2023 il surplus delle partite correnti spagnole (il dato 2024 non si conosce) era stato pari a 39,7 miliardi di euro: il più alto rispetto agli 11 mesi precedenti. A sua volta, nel 2024, il surplus dell’intera Europa è risultato essere pari a 494 miliardi di euro: del 20 per cento in più rispetto alla punta massima toccata nel 2017 ed un recupero fulmineo (162 per cento) rispetto alla caduta del 2020, quando il saldo si era ridotto a 305,5 miliardi di euro.
Non appena saranno noti i dati relativi ai singoli Paesi europei sarà possibile una valutazione più approfondita. Ma già le risultanze dell’anno precedente non lasciano grande spazio all’immaginazione. Nel 2023, secondo le statistiche fornite dalla stessa Commissione europea, l’attivo complessivo fu pari a 369,1 miliardi se riferito alla sola Eurozona; a 439,2 se esteso all’intera UE. Nel primo caso, dieci Paesi in surplus e dieci in deficit; nel secondo sei in surplus e uno in deficit. Per tutti la relativa distribuzione era risultata fortemente squilibrata. Nell’Eurozona, il surplus si era concentrato per il 97,2 per cento a favore di quattro Paese: Germania (56,6%), Olanda (23%), Irlanda (9%) e Spagna (8,7%) per un totale di circa 450 miliardi di euro. Sul fronte opposto, invece, Francia (63,7%) e Grecia (20%) con un deficit complessivo di 75 miliardi di euro. Per i Paesi no-euro, la parte del leone andava alla Danimarca (39,5%) del surplus complessivo, pari a 93,7 miliardi di euro; mentre il deficit si concentrava esclusivamente sulla Romania per un valore pari a 23,6 miliardi.
Su questa geografia finanziaria è necessario riflettere. La frattura che divide l’Europa non è solo economica. Si pensi ad esempio alla Francia, da anni alle prese con un forte deficit delle partite correnti. Il suo abbracciarsi alla Germania, nel famoso o vituperato “asse franco tedesco”, non poteva non riflettere la profonda asimmetria tra i due Paesi, ponendola sistematicamente in una posizione di debolezza. Ed, infatti, nelle decisioni essenziali – ultima in ordine di tempo quella sul Patto di stabilità – dopo un po’ di sceneggiata si era sempre adeguata ai desiderata del suo senior-partner.
Si deve solo aggiungere che, nel panorama internazionale, Paesi come la Germania, che nel 2023 hanno contabilizzato da soli un surplus delle partite correnti pari a 259,2 miliardi di euro sono rimasti una mosca bianca. In passato c’era la Cina che manteneva quel primato, ma dal 2008 in poi, a seguito della Global Financial Crisis, Pechino ha cambiato registro. Da una politica tutta concentrata sul traino delle esportazioni si è spostata verso la riorganizzazione del mercato interno, con l’obiettivo di venire incontro alle necessità dei propri abitanti. Così nel 2023 mentre il surplus cinese, rispetto al 2008, si era ridotto del 40 per cento, stando almeno ai dati del Fondo monetario internazionale; quello tedesco era, invece, aumentato del 30,7%. Dinamica che, in qualche modo, spiega (lungi da noi ogni tentativo di giustificazione) la reazione di Donald Trump in tema di dazi, anche nei confronti dell’Europa.
Le nuove regole del Patto di stabilità hanno contribuito, pertanto, a stabilizzare ulteriormente una vecchia politica: anch’essa riflesso dello shock simmetrico prodotto da quella crisi finanziaria, che aveva il suo epicentro nell’America di George Bush. Scelta non casuale, ma riflesso dei contrapposti interessi che dividono gli Europei. I paesi in surplus, infatti, possono contare ogni anno su ingenti risorse finanziarie che investono dove vogliono. Una parte di questi flussi rimane in Europa – circa 109 miliardi di euro nel 2023 – ma il grosso prende le via dell’estero. Dove? Difficile dare una risposta. Le più recenti statistiche del FMI indicano che la destinazione principale dei flussi finanziari a livello mondiale (inward foreign direct investment) sono proprio gli Stati Uniti (quasi 6 trilioni di dollari nel 2023), seguiti dall’Olanda e dalla Cina.
Due furono gli artefici principali di quella sorta di restaurazione finanziaria, destinata a contrastare le stesse proposte iniziali (più liberal) della Commissione europea: Cristian Lindner, leader del Partito democratico liberale, nonché ex ministro delle finanze del governo di Olaf Scholz, e lo stesso cancelliere. Anche se le responsabilità rimangono distinte. Il primo impose il ritorno alla “tirannia dei numeri” – quei vincoli alla crescita della spesa e del debito uguali per tutti i Paesi – nella speranza di dimostrarsi più realista del re. Ritenendo erroneamente che quella scelta potesse salvare il suo partito, ai minimi storici, dalle pressioni dei suoi diretti competitor: quell’AFD (Alternative für Deutschland) destinato a vincere le elezioni. Le colpe di Scholz sono state invece diverse. “Culpa in vigilando”: si potrebbe chiosare. L’aver attribuito un dicastero così importante ad una personalità inevitabilmente interessato più alla propria sopravvivenza che non al bene dell’Europa.
Ma tutto ciò appartiene al passato. Vladimir Putin da un lato, Donald Trump dall’altro hanno contribuito a determinare un capovolgimento del fronte. Quella che ieri era una regola, domani sarà solo un vecchio ricordo. L’Europa è di fronte a qualcosa di inedito, ed è costretta, per non soccombere, a tentare nuove vie. Per fortuna le elezioni tedesche hanno creato condizioni migliori. Al timone sarà un nuovo leader, Friedrich Merz, che conosce bene i funzionamenti di un’economia di mercato, se non altro per essere stato un affermato avvocato d’affari – nonché Presidente del consiglio di vigilanza di BlackRock Germany (uno dei più importanti Fondi d’investimento) – in grado, quindi, di distinguere tra le semplici aspirazioni ed il principio di realtà. La crisi del 1929 fu risolta con la corsa al riarmo, che poi portò alla seconda guerra mondiale. Oggi riarmare l’Europa è invece necessario per impedire, con la deterrenza, avventure pericolose da parte dei suoi nemici, ringalluzziti dalla svolta che Trump sta imponendo all’America tutta. Insieme alle proposte di Ursula von der Leyen – investimenti per 800 miliardi di euro – ci sarà pertanto un volano che, seppur tardivamente, non potrà che determinare quel cambiamento che sarebbe stato opportuno già negli anni precedenti. Ma che ora appare improcrastinabile.