Ventotene tra mito e tabù

Anni fa una cara amica, fervente europeista, cercò di convertirmi, se non all’europeismo reale (cui sapeva sarei stato ben più che refrattario), a quello ideale, prestandomi il Manifesto di Ventotene. […]

Mar 22, 2025 - 12:17
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Ventotene tra mito e tabù

Anni fa una cara amica, fervente europeista, cercò di convertirmi, se non all’europeismo reale (cui sapeva sarei stato ben più che refrattario), a quello ideale, prestandomi il Manifesto di Ventotene.

Lo prendo in mano. Prefazione di Mario Monti. Vabbè. Scorrendo le note storiche a corredo del testo mi colpì l’annotazione che Altiero Spinelli abbandonò il comunismo perché Ernesto Rossi lo persuase della bontà del mercato, dopodiché passò al federalismo. La mia “conversione” non ebbe luogo.

Oggi ne parlano tutti perché Giorgia Meloni al Senato, nel corso di una comunicazione informativa sul processo di riarmo della Ue, ha letto alcuni passi del Manifesto manifestando la sua posizione contraria. L’opposizione del PD ha rumoreggiato a difesa di quella che è divenuta una sorta di Bibbia per tutta la galassia europeista, nonostante in effetti sia stata letta pochissimo. La sua funzione, al di là del suo contenuto effettivo, è stata, curiosamente, di costruire un europeismo ideale rispetto a quello “reale”. Mentre la Ue, l’Europa che c’è, attuava l’austerità, massacrava la Grecia e si rivelata anche ai più distratti come un miserabile dispositivo a favore delle oligarchie, gli europeisti potevano crogiolarsi al fuoco di una purezza originaria “tradita”: un’utopica Europa di pace, giustizia e cooperazione fornita, appunto, dal Manifesto di Ventotene. Così tanta sinistra poteva chiudersi in questa idealistica comfort zone evitando di fare i conti con le contraddizioni della integrazione europea (in realtà puro orizzonte ideale che ognuno può riempire dei contenuti concreti che più gli piacciono) nonostante ogni martellata sui denti (l’austerità, la governance antidemocratica, il mercatismo, il lobbismo, e alla fine il militarismo) che la storia si incaricava di sbatterle in faccia. Si capiscono così le reazioni stizzite se non isteriche dei deputati Pd. Ma al di là della polemica contingente resta un quesito: Il Manifesto cosa dice in realtà? Che prospettive reali suggerisce?

Il testo del direttore della Fionda Alessandro Somma, Contro Ventotene (Rogas 2021), ci riporta al sorgere dell’idea di unificazione continentale smontando molti luoghi comuni di moda oggi. A partire della pretesa centralità del Manifesto europeista fra la resistenza antifascista, nel cui ambito in realtà ebbe una risonanza modestissima – in particolare presso socialisti e comunisti. Non troppo sorprendentemente, visto che le sue fonti sono per lo più liberali: Luigi Einaudi, Giovanni Agnelli (il padrone della Fiat, che aveva scritto un libro assieme al liberale Antonio Cabiati). Mentre le sinistre dell’epoca insistevano sul nesso capitalismo – guerra, dando al pacifismo una curvatura nettamente contraria agli assetti economici dominanti, i federalisti propendevano per svincolare il nazionalismo dal capitalismo, che “opportunamente disciplinato, rappresenta una salvaguardia della libertà e del progresso”.

Diversamente dall’allora nascente movimento neoliberista di von Hayek i federalisti di Ventotene non escludevano delle forme di giustizia sociale, arrivando a vagheggiare una “rivoluzione socialista”, ma entrano in convergenza con esso con una radicale sfiducia verso gli interessi che Spinelli definiva “sezionali” cioè particolari, fossero quelli del padronato o delle rappresentanze operaie (di qui una certa avversione per i sindacati); in effetti una radicale sfiducia nei meccanismi di rappresentanza porta a declinare l’inclusione sociale realizzandola tramite la concorrenza ed il mercato.

Tale tema riemergerà più nettamente nel successivo – e poco noto – Manifesto dei federalisti europei, in cui Spinelli spinge la polemica a carezzare l’inveterato luogo comune della comune matrice di fascismo e comunismo, un classico del neoliberismo.

È famoso l’argomento dei federalisti secondo cui una unione impedirebbe le guerre, cancellando gli Stati. Meno nota è invece la posizione di Spinelli per cui la dimensione nazionale permetterebbe al conflitto distributivo di condizionare l’allocazione delle risorse distorcendo la concorrenza (qui il nervo scoperto del suo fondo liberista) e quindi inibendo lo sviluppo; la soluzione perciò sarà un grande mercato in cui si dissolvono gli Stati. Si tratta di una depoliticizzazione della vita pubblica, a favore di una vita economica che comprenda “libera circolazione degli uomini, delle merci, dei capitali, dei servizi”.

Il testo di Somma avanza fino a tempi più recenti, mostrando come la curvatura liberista sempre più profonda delle dinamiche europee venga avallata da Spinelli – già commissario europeo all’industria – fino all’Atto Unico di Delors, che poco prima di morire ebbe tempo di appoggiare; non apprezzandone la forma politica, assai lontana dagli ideali federalisti, ma da valorizzare come istanza di amplificazione delle istanze sovranazionali. Un dato molto poco conosciuto, che è invece eloquente di come l’europeismo sia una ideologia che, mostrando apertamente una aderenza a principi emancipativi, in realtà è completamente funzionale ad una logica di mercato.

Visto il contenuto, suscita un profondo sconforto vedere come tanti progressisti (qualcuno ascrivibile, assai tristemente alla sinistra radicale) manchino il bersaglio in maniera clamorosa, prendendo per buona la qualifica di socialista per il Manifesto. Il punto che risulta più importante, di natura squisitamente politica, già lo cita nella sua introduzione (scritta nel 1944) Eugenio Colorni: la distinzione fondamentale non sarebbe più fra comunismo e liberalismo o fra famiglie ideologiche, ma fra federalisti e tutti gli altri. Si tratta di una prospettiva politica il cui punto centrale è l’unificazione politica (a breve termine dell’Europa, per tali teorici, poi del mondo intero…) come la panacea di tutti i mali, il fattore  per risolvere tutti i problemi. Quindi il movimento federalista si prefiggeva di non essere un partito politico, ma di “operare sui vari partiti politici e nell’interno di essi” (salvo i fascisti ovviamente) con trasversalità. Pare arduo parlare di socialismo.

Se pensiamo ai dibattiti avuti in questi anni è capitato spessissimo che l’interlocutore avesse un atteggiamento simile: anche riconoscendo le storture della Ue non si abbandona la fede nel processo di integrazione, colto come un bene in sé che avrà avuto una pessima realizzazione ma che resta come ideale o come sogno. Si tratta di un atteggiamento fideista ed il risveglio può essere piuttosto traumatico a fronte di un bagno di realtà, specie per cui ha a cuore le istanze sociali. È stato scritto che i progressisti europeisti preferirebbero un’Europa anche liberale purché unita. Ma non pare che i liberali abbiano mai ricambiato né che possano farlo domani.