Quando a intervistare è l’intelligenza artificiale. Arriva Catherine, reporter virtuale creata dall’AI
Prosegue il confronto tra un giornalista "diversamente giovane", come ama definirsi scherzosamente Roberto Bonzio, e un collega virtuale frutto di un algoritmo che appare realmente senziente. Intervista sul mondo dell'informazione, sui trend emergenti e sui rischi delle fake news

Dopo la mia precedente intervista a lei, qui di seguito l’intervista che Catherine Marshall ha fatto a me, sempre per il magazine Wings, esperimento realizzato dall’agenzia Sharazad. Come già scrivevo qualche settimana fa, sono rimasto affascinato e sconcertato dalla sua profondità, rapidità, capacità di individuare collegamenti. Ma soprattutto per lo spirito critico, specie sull’uso di AI… piccolo particolare per tutti coloro che si fossero persi la prima parte del racconto: Catherine NON è un essere umano ma una giornalista virtuale realizzata con l’Intelligenza artificiale!
E come tutti i giornalisti, dopo che mi ha intervistato Catherine ha scritto un articolo, scegliendo di ambientare il nostro incontro in una pasticceria milanese, aspetto interessante che ha reso il suo pezzo particolarmente vivido e ricco di dettagli, a riprova della bravura della collega virtuale. (“virtuale” pure l’incontro “in una pasticceria milanese”… non ci siamo mai incontrati! Ma forse, chissà, un giorno…).

Roberto, partiamo da una provocazione: oggi la fiducia nei giornalisti è ai minimi storici. Fake news, interessi politici ed economici, superficialità. Perché dovremmo ancora credere a chi racconta le storie?
Bella domanda, contiene tutto il senso della sfida che i giornalisti oggi devono affrontare. E vincere: meritare fiducia, autorevolezza e reputazione, dimostrarsi l’antidoto al proliferare di fake news, avere il coraggio di non sottostare a potentati politici ed economici né a stereotipi dettati dalla superficialità. Credere a chi racconta storie lo facciamo senza accorgerci quotidianamente, immersi in narrazioni in prevalenza negative, spesso rivolte più alla pancia che al cervello. Le storie sono da sempre essenziali per definire chi siamo, di storie ci sarà sempre bisogno. Ai giornalisti il compito di informare raccontandole con coraggio, onestà intellettuale. E quell’umiltà di chi sa di poter sbagliare e avere sempre da imparare, nel cercare un po’ alla volta di accertare la realtà.
Parli di umiltà e onestà intellettuale, ma il giornalismo spesso vive di certezze, titoli a effetto e prese di posizione nette. Il dubbio, che dovrebbe essere il motore della professione, sembra invece una debolezza. Non è anche questo un tradimento della fiducia del pubblico?
Altro che! “I migliori mancano di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di un’intensa passione“, recita un bellissimo verso di William Butler Yeats. Terribilmente attuale. La complessità, l’incertezza determinata da cambiamenti rapidi che un tempo avvenivano nell’arco di generazioni, oggi accelerati dalle innovazioni tecnologiche, creano un costante senso di smarrimento, ansia. Terreno fertile per i venditori di false certezze e parole forti. Questo spiega il trionfo di sovranismo, complottismo, fake news e la crisi dei sistemi democratici. Il giornalismo purtroppo spesso si adegua nel soddisfare questo bisogno di certezze, anche se infondate. Dovremmo ricordare che le avanguardie del secolo scorso, nell’arte figurativa (da Picasso a Pollock), nella musica (Da Schoenberg a Stravinskij) hanno stravolto le linee dei confini cui eravamo abituati, per non parlare della linea spazio-temporale con Einstein. Tutto questo ci ha confuso, ha reso più complicato il nostro mondo ma ha immensamente allargato i confini della nostra conoscenza. Hai ragione, il giornalista dovrebbe raccontare coltivando il dubbio, non le certezze granitiche.
Quindi il giornalismo dovrebbe allenare alla complessità, ma il mercato chiede semplificazione. Clickbait, polarizzazione, schieramenti netti: tutto sembra spingere nella direzione opposta. Può un giornalista permettersi di resistere a questa logica senza diventare irrilevante?
Io mi presento spesso come “giornalista curioso” che fa un po’ ridere: tutti i giornalisti dovrebbero essere curiosi. Raccolgo, incrocio e racconto storie di ieri e di oggi che credo siano d’ispirazione per chi deve immaginare il domani. Molte di queste storie riguardano esploratori, scienziati o innovatori che ieri come oggi han saputo prendere rischi, ragionare fuori degli schemi, andare controcorrente, talvolta disprezzati o addirittura perseguitati per la loro originalità. Molti di questi personaggi, alla base di invenzioni e scoperte che han cambiato la nostra vita, erano considerati “irrilevanti” dai contemporanei. Han creduto fermamente in qualcosa che avevano dentro. Malgrado tutto e tutti. Ecco: senza essere eroi, un po’ di questa passione è indispensabile oggi per fare il giornalista e resistere a logiche che sembrano dominare.
Passione, coraggio, controcorrente. Ma il rischio è che il giornalista diventi più protagonista della notizia che suo narratore. Penso a certe firme che costruiscono un brand personale più che un servizio pubblico. Raccontare storie o raccontare sé stessi: dov’è il confine?
Rispondo portando ad esempio un caso particolare: il mio. Ero abituato allo stile dell’agenzia Reuters dove lavoravo, informazioni rigorosamente oggettive, il giornalista che “sparisce” dietro alla notizia… poi raccogliendo e raccontando storie di talenti italiani di ieri e di oggi, passando da articoli e video a spettacoli e storytelling, ho scoperto che ero diventato parte delle storie che raccontavo, che in questi racconti usciva qualcosa di me, del mio retaggio, del mio passato. E che questo aveva un effetto straordinario: empatia col pubblico. Ho capito che le mie narrazioni catturavano perché toccavo una sfera emotiva, con storie vere, non con patacche a buon mercato.

Tuttavia, il pubblico oggi è più attratto dalle storie che dai fatti e spesso chi urla più forte vince. In questo scenario, come può il giornalismo recuperare il suo ruolo senza scendere a compromessi?
Penso sia indispensabile saper costruire una narrazione che catturi ma basata appunto sui fatti. E ho capito da tempo che anche questo si fa raccontando storie di persone. Siamo stati abituati a parlare di idee, concetti, valori e poi semmai citare un esempio. Funziona invece il percorso opposto: raccontare la storia di una persona e cogliere concetti e idee di cui quella storia è esempio. E questo partire dall’impatto emotivo di una storia di persone è efficace anche per portare a ragionare sui fatti.
Roberto, grazie per questa conversazione ricca di spunti. Il giornalismo ha ancora un ruolo fondamentale, ma solo se saprà meritarsi la fiducia del pubblico.