Primi effetti della guerra dei dazi sul sistema Cina. Crollano le spedizioni verso gli Usa, le imprese ripensano le filiere
Mancano oltre due mesi all’entrata in vigore delle “tariffe reciproche”, eppure gli effetti sono già visibili, almeno in Cina, l’unico paese a cui Donald Trump non ha concesso la pausa di 90 giorni: crollo delle spedizioni, fabbriche chiuse, e lavoratori a braccia incrociate. Le notizie in arrivo dalla Repubblica popolare lasciano presagire mesi complicati per […] L'articolo Primi effetti della guerra dei dazi sul sistema Cina. Crollano le spedizioni verso gli Usa, le imprese ripensano le filiere proviene da Il Fatto Quotidiano.

Mancano oltre due mesi all’entrata in vigore delle “tariffe reciproche”, eppure gli effetti sono già visibili, almeno in Cina, l’unico paese a cui Donald Trump non ha concesso la pausa di 90 giorni: crollo delle spedizioni, fabbriche chiuse, e lavoratori a braccia incrociate. Le notizie in arrivo dalla Repubblica popolare lasciano presagire mesi complicati per la seconda economia mondiale.
Tra chi cancella preventivamente gli ordini e chi abbandona i carichi già in viaggio per non pagare il sovrapprezzo, il numero di navi in partenza dalla Cina verso gli Stati Uniti con capi d’abbigliamento, elettronica, mobili e altre merci, è in rapida discesa. Stando ai dati di Huatai Futures, per il periodo tra il 14 aprile e l’11 maggio, le compagnie di navigazione hanno cancellato 26 partenze, riducendo la capacità di trasporto container di quasi il 40% rispetto all’inizio di aprile. Secondo il settimanale finanziario Caixin, il 10 di aprile, all’indomani dell’annuncio dei dazi del 125% (a cui Pechino ha risposto con contro- dazi equivalenti), il porto di Shanghai, dove i terminal Yangshan e Waigaoqiao erano per la metà occupati da merci dirette verso l’America, “si è fermato bruscamente”.
Se la situazione rimarrà quella attuale, l’impatto reale dei dazi sarà visibile nei prossimi giorni. Secondo Alan Murphy, amministratore delegato della società di analisi dati danese Sea-Intelligence, la domanda di merci verso la West Coast potrebbe diminuire del 28% questa settimana, mentre è previsto che le spedizioni per i porti della costa orientale crollerà del 42% la settimana successiva. In discesa verticale anche il trasporto aereo, che nelle tratte per gli Stati Uniti fonti di Caixin danno complessivamente in calo fino al 90%,
“Esportatori, marchi e i rispettivi clienti sono tutti sotto shock”, spiega a Ilfattoquotidiano.it Benjamin Cavender, amministratore delegato del China Market Research Group (CMR), azienda con base a Shanghai che offre servizi di ricerche di mercato. “Sembra che le organizzazioni più grandi, quando possibile, stiano ancora valutando come ampliare ulteriormente le loro catene di approvvigionamento per mitigare i rischi e garantire il controllo dei costi, nonché una fornitura costante di prodotti”, aggiunge Cavender, secondo il quale, tuttavia, “molte aziende e marchi più piccoli stanno prendendo una pausa in attesa di vedere come si evolveranno le normative”.
Per ora, a sospendere gli ordini è soprattutto chi ha spedito grandi volumi di merci all’inizio dell’anno per anticipare eventuali tariffe. Ma il trend è chiaro. Secondo un sondaggio pubblicato dal Consiglio cinese per la promozione del commercio internazionale, quasi il 50% delle aziende cinesi intervistate prevede di ridurre le proprie attività con gli Stati Uniti e oltre il 75% intende compensare la perdita esplorando i mercati emergenti.
La scelta più ovvia resta il Sud-est asiatico, dove già ai tempi della prima trade war, durante il primo mandato Trump, si sono riversate le aziende cinesi e le multinazionali occidentali, per aggirare le barriere commerciali e sfruttare i costi della manodopera, ormai spesso più bassi che in Cina. La regione si conferma ancora un buon piano B per chi vuole diversificare la produzione: nonostante le minacciate tariffe di Trump, contro i paesi Asean sono previste aliquote tra il 32 e il 49%, quindi comunque inferiori a quelle imposte a Pechino.
“La maggior parte delle persone con cui ho parlato ritiene che le tariffe, in qualche forma, rappresentino un problema duraturo, spiega Cavender, quindi penso che nel medio-lungo termine assisteremo a una continua spinta a delocalizzare ulteriormente la produzione e la logistica dalla Cina verso altri mercati che potrebbero avere maggiore facilità a ritrattare i dazi con gli Stati Uniti”.
Nella Repubblica popolare il colpo delle tariffe è già arrivato. Quantomeno nelle province meridionali, da sempre culla del manifatturiero cinese ed export-oriented. Secondo il Financial Times, nel Guangdong impianti per prodotti dai jeans alle prese elettriche hanno annunciato la sospensione della produzione per almeno una settimana. In altri casi sono stati cancellati gli straordinari o i turni nel fine settimana.
Alcuni settori stanno risentendo più di altri, il “pronto moda” è tra questi. A Guangzhou molti laboratori dell’abbigliamento che producevano per Shein hanno chiuso dopo l’interruzione del regime “de minimis”, l’esenzione fiscale un tempo prevista dagli Stati Uniti per le spedizioni internazionali sotto gli 800 dollari. La piattaforma di ecommerce, così come Temu, ha annunciato pochi giorni fa che aumenterà i prezzi delle merci destinate al mercato americano.
Occorre però dare il giusto peso alle cose. È di questo avviso Gabriele Sportoletti, Omnichannel strategist per i mercati del Far East con vent’anni di esperienza diretta nel mercato cinese. “Non mi risulta che esistano situazioni del genere diffuso”, commenta il consulente bolognese a cui abbiamo condiviso un video girato in un centro commerciale deserto di Longgang, distretto alla periferia di Shenzhen. “A me le riprese danno molto l’idea di un centro commerciale B2B ma comunque non sembra una dismissione repentina (mancano molte insegne), quanto di una scarsa presenza di negozi”, spiega a Ilfattoquotidiano.it, “in generale c’è cautela e non panico sui dazi americani. Alcuni distretti industriali manifatturieri si sono visti annullare ordini ma non particolarmente pesanti. È vero che Apple ha spostato la produzione per gli Stati Uniti in India e che Foxconn ha lasciato a casa qualche migliaio di dipendenti, ma le mie fonti dicono che il governo è intervenuto con sussidi”.
La posta in gioco non potrebbe essere più alta: secondo Goldman Sachs, la trade war potrebbe costare alla Cina circa 10-20 milioni di posti di lavoro. Le autorità di Pechino escludono grandi stimoli, ostentando sicurezza. D’altronde, la performance economica del primo trimestre ha battuto i pronostici degli analisti. Il pil è cresciuto del 5,4%, le vendite retail sono aumentate del 5,9% e a marzo la disoccupazione è scesa al 5,2% dal 5,4% di febbraio. “Indipendentemente da come evolverà la situazione internazionale”, rimarremo concentrati sui nostri obiettivi di sviluppo”, ha annunciato lunedì Zhao Chenxin, vice direttore della Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma, confermando un tasso di crescita annuo previsto “intorno al 5%”.
Gli sforzi del Partito-Stato saranno focalizzati sulle aziende orientate all’export, ora chiamate a riconvertire i prodotti inizialmente destinati alle esportazioni per il mercato interno. Per supportare la transizione, colossi dell’ ecommerce, come Tencent e JD, hanno già avviato iniziative di reclutamento e formazione per i giovani, soprattutto in ambiti tecnologici, come intelligenza artificiale, livestreaming, cloud, big data e contenuti digitali.
Secondo stime di Capital Economics, lo scorso anno le vendite al dettaglio in Cina hanno raggiunto i 43,2 mila miliardi di yuan (5,92 mila miliardi di dollari), più di undici volte le esportazioni verso gli Stati Uniti (3,7 mila miliardi di yuan). Teoricamente, una perdita di 2 mila miliardi di yuan nelle vendite in America nei prossimi due anni potrebbe essere compensata da un aumento del 4% dei consumi domestici nello stesso periodo. Ma le incertezze del futuro rendono i cinesi più inclini al risparmio. E il rimpatrio forzato dei commerci rischia di acuire la competizione interna, riducendo i margini di guadagno delle aziende nazionali.
“Sebbene abbiamo assistito a una lieve ripresa della fiducia dei consumatori all’inizio dell’anno, sarà difficile solo con la spesa interna contribuire concretamente al salvataggio degli esportatori che vedono svanire gli Stati Uniti come sbocco”, spiega a Ilfattoquotidiano.it Cavender, credo che più probabilmente gli esportatori sposteranno l’attenzione sulla crescita delle vendite in Europa e nei mercati emergenti”. Giudizio condiviso da Eurizon che, in una nota del 22 aprile, ha anticipato l’arrivo nel Vecchio Continente di un terzo delle merci destinate al mercato americano. Se così fosse, il surplus della Cina nei confronti dell’UE lieviterebbe del 70% raggiungendo i 420 miliardi di dollari.
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