Perché tutto l’Occidente dovrebbe riunirsi in una grande area di libero scambio
Costituire una grande zona di libero scambio (Lfta) tra i paesi occidentali, sul modello dell'Efta europeo. La proposta di Giuseppe Capuano, professore di Economia internazionale all'Università di Salerno.

Costituire una grande zona di libero scambio (Lfta) tra i paesi occidentali, sul modello dell’Efta europeo. La proposta di Giuseppe Capuano, professore di Economia internazionale all’Università di Salerno
Se dovessero individuare una data a partire dalla quale si dovesse sancire l’inizio della fine della globalizzazione e del turboliberismo, gli storici dell’economia probabilmente l’individuerebbero nel 2020 anno della pandemia Covid-19.
Anno in cui vennero al pettine tutti i problemi e criticità di un modello geopolitico e economico che da un lato aveva favorito la delocalizzazione negli anni di gran parte dell’industria americana e europea in Asia alla ricerca di bassi costi del fattore lavoro e trasformato gli Stati Uniti e l’Ue essenzialmente in un mercato di assemblaggio di prodotti finiti, di servizi finanziari e di consumo e dall’altro, aveva consentito nel 2001 alla Cina di entrare nel WTO senza alcuna garanzia di reciprocità e senza impedire le pratiche di dumping da essa adottate.
Tra le conseguenze di una iperglobalizzazione non governata, non tutte negative (vedi ad esempio la crescita di molti Paesi in via di sviluppo con la riduzione della povertà), è stato in primis il formarsi di un gigantesco surplus commerciale della Cina, diventato il traino della sua ascesa di potenza economica e politica e, in secundis, il parallelo indebolimento dell’economia occidentale nel suo insieme, con gli Stati Uniti d’America sempre più alle prese con il crescere dei debiti gemelli (debito pubblico – circa 30mila miliardi di dollari – e debito commerciale – circa 1000 miliardi di dollari) e l’Ue spesso vittima della sua stessa architettura istituzionale e burocratica che la ha resa sempre meno competitiva sui mercati internazionali (vedi il “Rapporto Draghi” presentato nel settembre 2024).
Dopo la pandemia si è cercato di recuperare il deficit di competitività e innovazione e pezzi di apparato industriale da parte di USA e Ue accelerando i processi denominati reshoring e friendshoring con l’accorciamento delle catene del valore (dalle filiere lunghe a quelle corte). Il cambiamento di strategia produttiva da parte dei privati sostenuti dai singoli Stati si è dimostrata negli anni insufficiente e troppo costosa a causa dei tempi lunghi di attuazione e ostacolata dagli enormi problemi strutturali e di delocalizzazione di ritorno (vedi ad esempio la scarsità delle terre rare, di tecnologie ad esse collegate o gli enormi costi di localizzazione e/o la difficoltà di reperire personale specializzato a basso costo).
Tornando all’attualità economica, con la nuova Presidenza Usa invece, si sta cercando di trovare nuove strade a soluzione di questo disastro economico con la “guerra” dei dazi, con la cura che risulta essere peggiore del male. In pratica si sta usando il protezionismo e la politica commerciale come surrogato di altri strumenti di politica economica e industriale per far fronte ad una criticità strutturale del nostro sistema economico. Scelte che mettono in discussione probabilmente una delle poche certezze che la teoria economica moderna (da Smith a Ricardo a Keynes a Friedman) ha condiviso negli ultimi tre secoli ossia il principio secondo il quale “lo sviluppo del commercio internazionale favorisce la crescita economica e il benessere dei popoli”.
Al contrario delle pratiche protezionistiche proposte negli ultimi mesi e seguendo l’insegnamento dei grandi economisti del passato, in questo articolo si propone una modalità un po’ provocatoria e diametralmente opposta a quella attualmente perseguita dagli USA al fine di favorire la crescita delle economie occidentali e il loro nuovo posizionamento competitivo in uno scenario geopolitico in piena evoluzione: creare una grande zona di libero scambio denominata “Large Free Trade Association (LFTA)” tra i Paesi occidentali sul modello dell’EFTA con la partecipazione di USA, Ue, Canada, Giappone, Corea del Sud, Australia, etc. Con gradualità e con modalità eventualmente differenziate per i Paesi aderenti ma a tariffe decrescenti nel tempo e tendenti allo zero secondo un percorso condiviso.
La LFTA potrebbe dare origine a un grande mercato economico a tariffe doganali “zero” costituito da più di un miliardo di abitanti e che rappresenterebbe più del 50% (circa 50mila miliardi di dollari) del Pil mondiale che, al 2019, era pari a circa 94mila miliardi di dollari (fonte: FMI).
Dettagliando maggiormente la nostra proposta si premette che l’EFTA (Associazione Europea di Libero Scambio) è un’organizzazione intergovernativa istituita nel 1960 dalla convenzione EFTA, che promuove il libero scambio e l’integrazione economica fra i suoi membri, in Europa e a livello globale. I sette Paesi fondatori furono: Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia, Svizzera e Regno Unito e altri ne hanno fatto parte. Molti di questi Paesi, poi, hanno aderito all’Unione europea. Attualmente ne fanno parte l’Islanda, il Liechtenstein, la Norvegia e la Svizzera.
Tecnicamente una area di libero scambio è costituita da più Stati, nella quale è prevista la libera circolazione delle merci e dei servizi e la conseguente soppressione di tutti i vincoli imposti al commercio (tariffari e non tariffari) all’ interno dell’area. Gli Stati associati alla zona di libero scambio sono invece liberi di agire individualmente nei confronti di Stati terzi; quest’ultimo elemento differenzia la zona di libero scambio rispetto all’ unione doganale.
Lo spirito della proposta, quindi, sarebbe quello di seguire quanto insegnato dai grandi economisti del passato che va nella direzione opposta a quanto predicato dall’attuale Presidenza americana, nell’interesse dell’insieme dei Paesi occidentali, a partire dagli stessi USA.
Se attuata con modalità graduate nel tempo secondo un percorso condiviso, la Large Free Trade Association (LFTA) favorirebbe un aumento degli scambi commerciali, una crescita del Pil senza pressioni inflazionistiche e, da un punto di vista geopolitico, la nascita di un importante interlocutore globale. Sarebbe auspicabile che questa proposta sia oggetto di una più ampia riflessione tecnica e di attenzione da parte dei policy makers e da chi ha responsabilità di governo.