Ora per l’Europa c’è una sola via possibile: imparare a camminare sulle proprie gambe

Non possiamo sapere come andranno a finire le trattative per cercare di porre fine alla guerra in Ucraina, ma una cosa si sta delineando in maniera sempre più chiara: l’Europa deve imparare a camminare da sola sulle proprie gambe. Dovrà imparare a farlo in politica estera, dovrà fare lo stesso in ambito militare così come […]

Mar 7, 2025 - 12:34
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Ora per l’Europa c’è una sola via possibile: imparare a camminare sulle proprie gambe

Non possiamo sapere come andranno a finire le trattative per cercare di porre fine alla guerra in Ucraina, ma una cosa si sta delineando in maniera sempre più chiara: l’Europa deve imparare a camminare da sola sulle proprie gambe. Dovrà imparare a farlo in politica estera, dovrà fare lo stesso in ambito militare così come in quello tecnologico. Questo non perché gli Stati Uniti non siano più un alleato – lo sono senz’altro, per quanto in tanti si stiano oggi interrogando sugli sviluppi di questo rapporto nel futuro prossimo – ma perché è abbastanza chiaro che, qualunque sia la strada che il nostro continente vorrà intraprendere, ciò dovrà avvenire a prescindere dalle posizioni di Washington e senza dover dipendere in tutto e per tutto dall’ombrello protettivo americano. 

È sempre più evidente, infatti, che per i Paesi europei, in questo preciso momento storico, non è più sostenibile che uno starnuto alla Casa Bianca possa tramutarsi in una tempesta dalle nostre parti. Lo dimostra lo scontro, definito in tanti modi che vanno da «siparietto» ad «agguato», tra la coppia Trump-Vance e Volodymir Zelensky: non sappiamo che conseguenze potrà avere sul conflitto ucraino, se rappresenta solo un approccio diplomaticamente poco ortodosso o il segno di un vero e proprio riallineamento degli equilibri mondiali, ma certo è che il solo non sapere in che direzione stia volgendo la situazione è sufficiente, per i governi europei, per avere chiaro che è sempre più necessario sviluppare formule politiche che, sempre nell’ambito di una ferma alleanza, possano essere condotte in maniera del tutto autonoma da Washington. 

Mentre l’Europa sembra iniziare ad acquisire la presenza di tali necessità, convocando vertici ad hoc, al tempo stesso deve trovare il modo di definire posizioni per saper fronteggiare questa sua nuova collocazione, in un momento in cui la Germania è reduce da un voto e si appresta a formare un nuovo governo che sarà senz’altro guidato dal leader del partito di centrodestra Cdu Friedrich Merz, ma su cui pesano ancora numerose incognite. 

La locomotiva d’Europa si trova in una posizione insolita, difficile, soprattutto dall’inizio della guerra in Ucraina, e oggi dovrà per forza giocare un ruolo rilevante se il nostro continente vorrà ritagliarsi un ruolo autonomo, ruolo che difficilmente potrebbe esercitare senza Berlino. 

Momento spartiacque
Fino al 24 febbraio 2022 la Germania si trovava saldamente inserita nell’asse atlantico della Nato, nell’Unione europea aveva la Francia come interlocutore naturale nell’ambito del cosiddetto asse franco-tedesco e teneva rapporti più che cordiali con la Russia, con cui aveva stretto importanti accordi di natura energetica. 

Tutto questo, concentrandosi in primis sull’aspetto economico e senza dare particolare peso a quello militare, forte di buoni rapporti con i vicini, anche quelli non alleati, e di un tradizionale ombrello militare americano che andava avanti fin dalla Guerra fredda, quando la Germania era divisa e l’ovest rappresentava la frontiera della Nato lungo la Cortina di ferro. 

L’inizio della guerra in Ucraina ha rappresentato un crollo per questo assetto politico, con il Paese che si è riscoperto in prima linea con una guerra a poche centinaia di chilometri, con il rapporto con la Russia logorato e una politica energetica frutto di un lavoro di anni che aveva portato alla realizzazione del gasdotto Nord Stream tutta da ridiscutere.

Il sabotaggio di questa infrastruttura, ancora oggetto di indagini, ha dato un ulteriore schiaffo a Berlino in questa situazione. 

La Germania ha così dovuto optare per la politica del riarmo, stanziando 100 miliardi di euro in un fondo dedicato a rafforzare la Bundeswehr (l’esercito tedesco) e ha subito i contraccolpi economici del nuovo assetto, entrando in un periodo di stagnazione che ha portato tra le altre cose a una crisi del settore industriale, colonna portante della locomotiva tedesca, e in particolare per il settore dell’automobile, che in Germania oltre a una voce del Pil rappresenta un tratto fortemente identitario. 

Cosa cambia a Berlino
Con Berlino marginalizzata, in un’Europa spaventata da una guerra alle porte e che ha spostato il baricentro a est, complice una crisi dell’asse franco-tedesco legato anche alla crisi politica interna della Francia, l’esecutivo guidato da Olaf Scholz si è progressivamente indebolito, portando il partito del cancelliere, l’Spd, a crollare addirittura al terzo posto alle Europee della scorsa primavera e, qualche mese dopo, alle dimissioni anticipate. 

La vittoria della Cdu di Merz nel voto del 23 febbraio scorso era pienamente annunciata stando ai sondaggi, ma non mancavano le incognite legate alla composizione del parlamento e alla conseguente formazione di una compagine di governo. E così, in un Paese in cui tradizionalmente al più tardi all’ora di cena si ha già chiaro chi siano i vincitori e vinti del voto, gli osservatori sono rimasti incollati al dato elettorale fino al cuore della notte per conoscere il risultato del partito sovranista di sinistra di Sahra Wagenknecht, fino all’ultimo in lotta per raggiungere il quorum del 5% e rimanendo escluso dal parlamento per un pugno di voti, sufficienti a consegnare alla Cdu e ai socialdemocratici dell’Spd i numeri per formare un governo. E permettendo così al centrodestra di continuare il proprio cordone sanitario intorno alla destra euroscettica e anti-immigrazione dell’Afd, nonostante l’attivo endorsement ricevuto da Elon Musk.

In attesa che nasca il nuovo governo, al netto delle incognite relative a eventuali complicazioni che potranno emergere nel corso delle trattative per la sua formazione, Merz sta iniziando, in questo momento così complesso per gli equilibri europei, a delineare la sua strategia da cancelliere in pectore: diversi media hanno riportato la notizia secondo cui avrebbe proposto la creazione di un ombrello nucleare europeo con le atomiche di Londra e Parigi, a prova del fatto che anche lui ha ben chiaro come l’Europa, da un punto di vista militare, deve ragionare sulla possibilità di agire senza Washington. 

La Germania ad oggi ospita atomiche statunitensi nell’ambito del programma di condivisione nucleare, e lo stesso Merz avrebbe sottolineato come ad oggi questo accordo è vincolato nell’ambito della Nato, ma avrebbe anche aggiunto che vuole «sperare nel meglio», ma deve «prepararsi al peggio». 

Manovre in corso
Merz a parte, l’Europa sgomita per prendere iniziative nel timore che Trump e Putin decidano come porre fine alla guerra in Ucraina senza coinvolgere né l’Europa né la stessa Ucraina, col rischio che sia proprio il nostro continente a pagare il prezzo più alto. Un rischio che ha preso piede e inquietato molte alte sfere dopo lo scontro Trump-Zelensky nello studio ovale e dopo la proposta della Casa Bianca di un accordo con Kiev per ottenere delle terre rare come compenso per gli aiuti militari, proposta che mostra non solo un approccio muscolare ma anche la volontà di non prendere in considerazione gli alleati del vecchio continente. 

Due notizie che hanno preoccupato notevolmente le cancellerie europee. Da un lato il presidente francese Emmanuel Macron, al netto delle crisi politiche interne affrontate negli scorsi mesi, porta avanti da tempi non sospetti una serie di sforzi per dare all’Europa un ruolo autonomo. Dall’altro, di fronte ai timori su un accordo Trump-Putin che finisca per tagliare fuori tutti quei Paesi che subiscono in prima linea le conseguenze del conflitto, molti governi sono passati all’azione.

Dopo che lo scorso 17 febbraio Macron ha invitato all’Eliseo i rappresentanti di una serie di Paesi con cui condivide tali preoccupazioni, il premier britannico Keir Starmer ha convocato una riunione simile, allargata a una serie di altri Paesi e soprattutto a Zelensky di ritorno dallo scontro con Trump. 

Le posizioni tra i diversi governi coinvolti sono ancora diverse, ma sufficienti a far emergere una proposta franco-britannica di un cessate il fuoco in Ucraina, volta a creare un’alternativa alla bozza della Casa Bianca che non tagli l’Europa fuori dai giochi. Sarà sufficiente? 

Intanto, il vecchio continente sta pensando seriamente al riarmo: sempre più Paesi, Italia compresa, hanno manifestato la volontà di aumentare la spesa militare, e proprio dal vertice di Londra Ursula Von der Leyen ha parlato di questa necessità, e invitato a soddisfarla in fretta. 

L’ordine mondiale è in crisi, l’Europa si sente abbandonata a sé stessa dagli Stati Uniti, la guerra in Ucraina ha mostrato che le guerre non sono qualcosa di remoto nello spazio e nel tempo, e prendono piede i timori che in un futuro prossimo i deterrenti e le leve diplomatiche oggi in nostro possesso non siano sufficienti a evitare un conflitto: una serie di condizioni che hanno portato all’aumento della spesa militare e stanno conducendo l’Europa a ragionamenti su un piano di difesa comune. 

Per quanto allo stato attuale non vi sia stato un ordine del genere, in Europa si ragiona perfino su cosa accadrebbe se gli Stati Uniti dovessero ritirare i loro contingenti dispiegati nel continente: servirebbero, secondo un rapporto del think tank Bruegel e del Kiel Institute, 300mila uomini e 50 brigate in più di quelli attualmente a disposizione degli eserciti dei diversi Paesi, da schierare soprattutto in quei punti, Baltico in primis, ritenuti maggiormente sensibili nelle simulazioni di uno scontro – che speriamo non abbia mai luogo – tra Nato e Russia. 

Numeri elevati a parte, sono tutti segnali che mostrano che l’Europa, dopo anni passati a pensare più ai conti e alle spese che a tutto il resto, deve imparare oggi più che mai a camminare sulle sue gambe, se non vuole consegnarsi all’irrilevanza.