Meno dimissioni ma in ufficio crescono gli insoddisfatti

Il report Hr del PoliMi. Arriva il grande distacco: cala la quota di chi fa colloqui e pensa di dimettersi, mentre aumentano del 14% i quiet quitter. Solo il 10% dei lavoratori sta bene nel contesto organizzativo L’onda lunga dell’incertezza del contesto economico ha il suo impatto anche sul mercato del lavoro che prende la […] L'articolo Meno dimissioni ma in ufficio crescono gli insoddisfatti proviene da Iusletter.

Mag 14, 2025 - 16:50
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Meno dimissioni ma in ufficio crescono gli insoddisfatti

Il report Hr del PoliMi. Arriva il grande distacco: cala la quota di chi fa colloqui e pensa di dimettersi, mentre aumentano del 14% i quiet quitter. Solo il 10% dei lavoratori sta bene nel contesto organizzativo

L’onda lunga dell’incertezza del contesto economico ha il suo impatto anche sul mercato del lavoro che prende la forma di una grande disillusione. Meno dimissioni di massa, ma molta più frustrazione. Dalle great resignation del 2021, le grandi dimissioni appunto, si è passati al quiet quitting, l’abbandono silenzioso, al great regret, il grande pentimento, fino a quello che l’Osservatorio Hr innovation practice del Politecnico di Milano indica come il fenomeno dominante di questo periodo, il great detachment, il grande distacco. Cosa sta succedendo ai lavoratori italiani? Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio, ci spiega che «c’è una crescente frustrazione, attribuibile alla percezione di instabilità del mercato del lavoro, accentuata da conflitti e crisi globali e da retribuzioni spesso inadeguate al costo della vita». Tutto questo sta peggiorando il già precario livello di benessere nelle tre dimensioni: fisica, relazionale e mentale. La quota di chi si dice pienamente ingaggiato è solo il 17%, mentre appena il 10% sta bene nel contesto organizzativo. Le persone che hanno cambiato lavoro o lo vorrebbero fare sono però in calo e sono passate dal 45% del 2022, al 46% del 2023, al 42% del 2024 e al 41% dell’ultima rilevazione.

Il grande distacco

I dati dell’Osservatorio 2025 sono il frutto di una duplice indagine, con l’obiettivo di capire la rotta del cambiamento nella gestione delle risorse umane: la prima è tra 150 grandi, medie e piccole aziende dove parla il responsabile hr, la seconda, svolta con il supporto di Doxa, è su un campione di 1.500 lavoratori. Partendo da questi ultimi, poco più di uno su dieci (11%) ha cambiato impiego nell’ultimo anno o ha intenzione di farlo entro i prossimi 18 mesi (29%). Molte variabili, la prima è sicuramente l’incertezza economica e quindi la difficoltà a capire le prospettive, bloccano chi in passato ha ingigantito le fila dei grandi dimissionari. Prendendo gli ultimi dati pubblicati dal Ministero del lavoro sul sistema delle comunicazioni obbligatorie, relativi al terzo trimestre del 2024, c’è un calo tendenziale, rispetto allo stesso periodo del 2023, del 2,9%. I numeri assoluti dicono che le dimissioni volontarie sono state 541.129 (307.176 maschi e 233.953 femmine), ossia 16.024 in meno del 2023. Andando ancora un po’ indietro, nel primo trimestre del 2024 il calo rispetto al 2023 è stato dello 0,4% e nel secondo trimestre del 3,8%. Bloccati dal timore di peggiorare la propria situazione, come è accaduto a qualcuno che ha surfato l’onda delle grandi dimissioni, i lavoratori diventano disillusi, rassegnati all’insoddisfazione. Secondo i dati dell’Osservatorio aumentano del 14% i quiet quitter, che restano al loro posto facendo il minimo indispensabile senza essere emotivamente coinvolti: si stima che siano il 14% del totale, ben uno su sette. Tra chi vuole cambiare impiego, diminuisce del 12% la quota di chi sta effettivamente facendo colloqui (il 52%), mentre crolla del 64% la percentuale di chi dopo aver cambiato lavoro si è pentito (dal 56 al 20%). La maggior parte continua però a essere insoddisfatto.

La ricerca di stabilità

Cambia l’approccio al lavoro. «Al benessere e all’equilibrio, che continuano a essere le priorità delle persone, si sta affiancando una crescente ricerca di sicurezza e protezione – continua Corso -. In questo contesto, la sfida principale per le direzioni delle risorse umane, nel 2025, è lavorare sul senso e il significato del lavoro, cercando di ovviare alla crescente sensazione di precarietà». Nell’ennesima fase di trasformazione, tra ricambio generazionale e rivoluzione tecnologica, ai manager delle risorse umane spetta il compito di «tracciare la rotta del cambiamento delle organizzazioni, che passa da intelligenza artificiale, nuove strategie e nuove competenze». I dati dicono che una quota superiore alla metà delle persone intervistate, nella scelta di un nuovo lavoro, guardano alle tutele offerte dal contratto (75%), alla presenza di un ambiente di lavoro sano e stimolante (73%), all’entità della retribuzione e dei benefici economici (69%). Il resto viene dopo, molto dopo, anche la possibilità di fare carriera che viene indicata tra le priorità solo dal 51%.

La mancanza di talenti

La disillusione di molti lavoratori rende ancora più difficile per le aziende gestire il tema della carenza di talenti. Un’azienda su due tra quelle intervistate prevede una crescita di organico nel 2025, ma l’83% delle organizzazioni fatica ad assumere nuovo personale e, nella metà dei casi, la difficoltà è in crescita nell’ultimo anno. L’aspetto più critico è la difficoltà a trovare candidati con le competenze tecniche adeguate. Circa una nuova posizione su 5 riguarda professioni digitali: i profili più ricercati sono quelli specializzati in AI, Big Data Management & Data Analytics e Cybersecurity & Data Protection. «Su tutti e tre è aumentata l’acquisizione tramite sviluppo interno a discapito della ricerca sul mercato esterno – osserva Corso -. Il Talent Shortage rende ancora più centrale la capacità dell’organizzazione di sviluppare nuove competenze. Già oggi l’8% dei lavoratori deve essere riqualificato perché le competenze per svolgere il proprio lavoro non sono adeguate o sono a rischio obsolescenza entro 3-5 anni. E un lavoratore su tre è preoccupato che le sue competenze diventino obsolete nel breve futuro o di avere difficoltà a ricollocarsi». Dall’altro lato però più di una persona su due ritiene anche di avere competenze che potrebbero essere utili in altri ruoli, per cui attualmente non è presa in considerazione. Il combinato di carenza di competenze e allungamento della vita lavorativa rende urgente l’analisi per identificare le competenze necessarie nel breve-medio termine (3-5 anni) e capire come ricollocare le persone in posizioni dove possano esprimersi al meglio: più di un’azienda su quattro, però, non effettua un’assessment delle competenze attuali.

La frontiera

La frontiera, secondo quanto sostiene Corso dovrebbe essere quella delle organizzazioni basate sulle competenze (skill-based organization) dove le responsabilità vengono assegnate sulle competenze delle persone, piuttosto che su fattori tradizionali come la posizione gerarchica, l’appartenenza funzionale o l’anzianità. In questo tipo di organizzazioni, l’Osservatorio ha rilevato che la percentuale di lavoratori che “sta bene” sale dal 10% al 18% e gli intender e dimissionari passano dal 41% del campione al 36%. Ma il vero dato sorprendente è il balzo dal 17 al 42% della percentuale di lavoratori pienamente coinvolti e motivati.

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