Meloni stretta fra Trump debito e industria in crisi

B en che vada, sarà un disastro. È inutile girarci intorno: le conseguenze economiche del trumpismo saranno pesanti per tutti. Per l’America, innanzitutto, e lo stiamo vedendo con Wall Street e il Nasdaq che rendono l’anima al diavolo, l’arietta di recessione diffusa dai ventilatori della Casa Bianca, l’indice di fiducia dei consumatori e delle imprese […] L'articolo Meloni stretta fra Trump debito e industria in crisi proviene da Iusletter.

Mar 17, 2025 - 14:01
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Meloni stretta fra Trump debito e industria in crisi

B en che vada, sarà un disastro. È inutile girarci intorno: le conseguenze economiche del trumpismo saranno pesanti per tutti. Per l’America, innanzitutto, e lo stiamo vedendo con Wall Street e il Nasdaq che rendono l’anima al diavolo, l’arietta di recessione diffusa dai ventilatori della Casa Bianca, l’indice di fiducia dei consumatori e delle imprese che crolla, i prezzi che rialzano la testa, le uova che costano più di un’oncia d’oro. Per il Pil mondiale, che con la guerra dei dazi subirà una frenata tra i 4 e i 7 punti percentuali. E anche per la povera Italietta meloniana e filo-americana, che credeva fosse amore invece era un calesse.

L’Underdog era sicura del suo rapporto preferenziale col tycoon, che l’aveva abbindolata con quel «Giorgia è fantastica, lavorerò con lei». Pensava a due cuori e una capanna, lei con Elon Musk, il Super Genius pronto a donarle i satelliti della sua Starlink per la modica cifra di 1,5 miliardi, come i marines che nel ’44 giravano per le vie del Belpaese distrutto regalando sigarette e cioccolata. E invece siamo già alla leopardiana “strage delle illusioni”. Lo Sceriffo di Washington non ha amici e non fa prigionieri. Il suo folle Make America Great Again costerà qualche lacrima e parecchio sangue anche a noi. Le minacce che incombono, per noi che già non ce la passiamo tanto bene, sono almeno tre: la crescita, i dazi e il debito.

La crescita. Intanto, c’è un problema generale, che per li rami discende fino a noi. Il clima di caos totale che il padrone della Casa Bianca semina nel globo terracqueo — con i suoi annunci improvvisi, i suoi dietrofront imprevisti e i suoi rilanci inopinati — oltre ad affossare le Borse blocca tutti i piani di investimento, pubblici e privati. Poi c’è uno specifico italiano, già fosco di suo. Secondo l’ultimo bollettino Istat del 3 marzo 2025, nel 2024 l’economia è andata assai maluccio. La crescita in termini reali è stata uguale a quella già piuttosto asfittica del 2023: un magro +0,7 per cento, tra l’altro giustificato solo dal fatto che l’anno scorso si è lavorato due giorni in più del precedente. L’effetto di trascinamento sul Pil di quest’anno sarà pari a zero. Le stime trionfalistiche di Palazzo Chigi parlavano di un più 1,2 per cento: fumo negli occhi del popolo bue. Se va bene, staremo sullo 0,5. Aggiungiamo che la produzione industriale a dicembre è colata a picco del 7,1 per cento, con il segno meno per il ventitreesimo mese consecutivo. Il fatturato dell’industria nel 2024 è retrocesso di 46 miliardi rispetto al 2023. I tavoli di crisi aziendale, a gennaio di quest’anno, si sono moltiplicati fino a mettere a rischio 126.447 posti di lavoro(contro i 118.310 del 2024). Ora, senza neanche considerare l’effetto recessivo della guerra commerciale, se davvero l’America entrasse in recessione è ovvio che anche la congiuntura tricolore ne risentirebbe.

I dazi. Questo è il vero piombo nelle ali, ammesso che ci fosse da volare. La “più stupida guerra della Storia” — come ilWall Street Journal definisce l’offensiva trumpiana sulle tariffe doganali — la pagheremo cara noi, che esportiamo in Usa beni per 66,4 miliardi con un surplus commerciale di 39. Secondo i calcoli di Prometeia, i dazi ridurranno l’export verso l’America del 16 per cento, con un costo aggiuntivo tra i 4 e i 7 miliardi per l’industria italiana. I settori più colpiti della manifattura saranno la meccanica e la farmaceutica (ai primi due posti per quota esportata negli States), poi il trasporto, la chimica, i macchinari e ovviamente il ferro e l’acciaio. Tra le imprese più penalizzate, in base alle simulazioni, ci saranno Lamborghini, Ferrari, Versace, Armani, Gucci, Dolce&Gabbana, Luxottica, Pirelli, Fincantieri, Leonardo e Ferrero, cioè i marchi più export-oriented verso il mercato americano. Ma anche eccellenze del medio capitalismo, come Nordmeccanica (azienda piacentina leader nell’imballaggio flessibile), Cimolai Technology (produttore di macchinari di movimentazione per grandi strutture di Carmignano di Brenta) o Iacobucci Aerospace (impresa di Ferentino specializzata in componenti per l’industria aeronautica). Rispetto allo scenario peggiore (dazi generalizzati e a pioggia) c’è ancora un’incognita. Si tratta di capire se Trump opta per un approccio differenziato, in funzione dello sbilanciamento della sua bilancia dei pagamenti, e quindi più aggressivo verso la Cina. Oppure se privilegia una linea protezionistica dedicata alle sole produzioni strategiche, nel qual caso l’Italia uscirebbe dalla contesa commerciale senza troppi danni. Lo capiremo presto. O almeno si spera.

Il debito. Nonostante la gelata del Pil, i conti pubblici italiani si mantengono su un discreto profilo di sostenibilità. Nel 2024 il deficit è migliorato, passando dal 7,2 al 3,4 per cento, a un passo dal fatidico 3 per cento delle regole europee. Dopo anni si rivede persino un avanzo primario, cioè il saldo tra entrate e spese al netto degli interessi, risalito allo 0,4 per cento del Pil. Ma il debito resta il macigno insopportabile che sappiamo: 140 per cento del Pil, con tendenza all’aumento nei prossimi tre anni. Ora, al peso già noto, se ne aggiunge un altro: il piano ReArm Europe da 800 miliardi, comunque lo si declini nelle prossime settimane, farà crescere ulteriormente l’indebitamento di tutti i Paesi Ue, Italia per prima, che non a caso con Giorgetti all’Ecofin sta cercando di attivare meccanismi meno “invasivi”, tipo una garanzia europea a copertura di investimenti privati. A questo aggiungiamo che, proprio in funzione dello sconquasso dei mercati e dei piani di nuova spesa militare nell’Unione, è in atto un rialzo generalizzato dei rendimenti dei titoli di Stato, dal Bund tedesco al Btp. Anche questa tendenza, se confermata nei prossimi mesi, aggraverà il nostro fardello.

La Sindrome Cinese. In questo scenario a tinte fosche, una domanda si impone: visto che l’America ci ha scaricato, non ci converrebbe riaprire le porte alla Cina? Nel mondo al contrario in cui stiamo precipitando, è un’ipotesi tutt’altro che peregrina. È ovvio che non si sostituisce da un giorno all’altro “l’Impero irresistibile” con l’Impero del Sole. Ma tornare sui nostri passi, lungo la Via della Seta, potrebbe non essere sbagliato. Guarita la vecchia “sindrome cinese”, ci sono settori in cuicooperare è possibile e a questo punto conveniente. Uno su tutti, l’energia. Le terre rare, di cui la Cina possiede il 60 per cento del totale, sono essenziali per le nostre fonti rinnovabili. E poi, dopo la chiusura dei gasdotti russi, continuiamo a pagare la bolletta elettrica più alta d’Europa e a pagare un Gnl americano quattro volte più caro. Cosa può fare Pechino, per noi? Su questo, Meloni è stata astuta: nella sua visita cinese del luglio 2024, dopo lo stop alla Belt and Road Initiative di fine 2023, ha avviato un’utile ricucitura: «Ragioniamo insieme su come garantire stabilità, pace e un interscambio libero, nel quadro di una cooperazione equilibrata e basata sulla reciproca fiducia», ha detto a Xi Jinping. Sono state anche individuate due aree di partenariato: auto elettrica e Intelligenza Artificiale. Potrebbe essere un buon inizio. Ma Giorgia avrà mai il coraggio di mollare Donald? Certo, sarebbe un altro clamoroso testacoda: il sovranismo post-fascista che si mette in affari con il capitalismo neo-comunista. Ma come si dice: a brigante, brigante e mezzo.

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