L’idealizzazione è il processo preferito degli esseri umani, e il più dannoso
Se ogni cosa è idealizzabile, come singoli individui e come massa possiamo essere condizionati a tal punto da non essere sempre in grado di scegliere il partner migliore per noi, così come la guida per una nazione o persino la meta di una vacanza. È un processo normale, che capita a tutti, ma che ci allontana dalla realtà non facendoci vedere le cose per ciò che sono, tanto in politica quanto in amore. L'articolo L’idealizzazione è il processo preferito degli esseri umani, e il più dannoso proviene da THE VISION.

L’amore è il motore del mondo, ci viene spiegato da secoli, possono enunciarlo Diotima nel Simposio di Platone o il papa nelle giornate in cui non ha voglia di parlare di sicari. In realtà, l’amore, così come altri sentimenti, può essere largamente influenzato da processi psichici ed emotivi che assumono dunque un ruolo ancor più dominante. Il principale è l’idealizzazione. E se ogni cosa è idealizzabile – un genitore, un amante, un politico, un luogo, persino la nostra stessa infanzia – allora forse è questo il vero motore che determina l’evoluzione dei principali meccanismi all’interno della società, modellandolo in base alla psiche dei singoli individui.
In quanto esseri umani, possiamo decidere di amare, odiare, provare indifferenza o stimare un nostro simile, ma quando entra in gioco l’idealizzazione smettiamo di considerarla una “scelta”, anche perché ciò ha origine quando non abbiamo nemmeno gli strumenti cognitivi adeguati per tarare il pensiero stesso. Da Freud in avanti, la psicologia ci insegna come l’idealizzazione primaria sia quella del bambino nei confronti dei suoi genitori. Il bambino considera spesso il proprio genitore un “eroe” perché ha la necessità di una protezione, e Freud stesso parla di idealizzazione come un meccanismo di difesa dell’Io. Nei miei primi disegni realizzati all’asilo, i classici con la famiglia e la casetta quadrata alle spalle, mio padre è sempre enorme, con delle braccia lunghissime che arrivano fino a me per potermi proteggere. Nei temi, alle elementari, quelli con la scrittura incerta e gli errori grammaticali, mia madre è “la più bella del mondo” e mio padre è “forte”, l’equivalente del gigante del disegno di qualche anno prima. Non è contemplata l’idea che persino un genitore possa essere fragile, e anche nelle famiglie più disfunzionali, dove effettivamente quella fragilità emerge anche in modi violenti, il bambino ha la tendenza a mantenere l’idealizzazione esterna, alimentando però internamente e inconsciamente il trauma, quello che verrà a bussargli durante l’adolescenza e l’età adulta, a meno che l’idealizzazione dell’infanzia non sia così granitica da attivare un processo di rimozione della sofferenza vissuta.
Nessuno di noi può ricordare il primo sorriso dei nostri genitori, ma quasi tutti ricordano il loro primo pianto. È un po’ come assistere alla caduta degli dèi, e vale per qualsiasi figura di riferimento. A me è successo quando, al funerale di un amico comune, ho visto il mio psicanalista dell’epoca piangere. Il pianto in sé non è assolutamente un fenomeno condannabile, e anzi è un sinonimo di sensibilità, ma quando un nostro modello monolitico mostra umanità viene meno la narrazione idealizzata che abbiamo costruito spesso per anni, e il gigante del disegno si rimpicciolisce fino a diventare grande come noi. Anche perché, come spiega lo psicoanalista britannico John Bowlby nella sua teoria dell’attaccamento, ogni immagine e rappresentazione del genitore o di un adulto caregiver condiziona non soltanto le azioni del presente del bambino, ma anche quelle del suo futuro. Non a caso quel bisogno ancestrale di protezione permane anche da adulto, e in caso di attaccamento più in là negli anni è necessario un viaggio all’indietro fino all’infanzia in ambito psicoterapico. Anche senza bisogno di scoprire chissà quali degenerazioni in famiglia. Io ho avuto e ho dei genitori meravigliosi e considero l’infanzia il periodo migliore della mia vita. Il lavoro più grande durante le mie sedute di psicoterapia però si basa proprio su questa domanda: è davvero così o sto idealizzando la mia infanzia?
Se, come detto, ogni cosa è idealizzabile, la mia paura è che come singoli individui e come massa siamo condizionati a tal punto da non essere sempre in grado di scegliere il partner migliore per noi, così come la guida per una nazione o persino la meta di una vacanza. Le aspettative, dunque l’idea anticipatoria che abbiamo di un evento, di una persona o di un oggetto, possono deformare la stessa realtà. Succede per esempio quando ci si presenta al Louvre di Parigi davanti all’opera col numero di catalogo 779. È la Gioconda, e la prima reazione di tutti è la stessa: “È minuscola”. Non toglie minimamente valore all’opera, ma per tutta la vita immaginiamo qualcosa di maestoso – quindi inconsciamente di grande, e torna di nuovo mio padre nel disegno dell’asilo – per poi scoprire le reali dimensioni. L’effetto Gioconda lo applichiamo un po’ a tutto, e non associato alle dimensioni – nonostante da bambini vedessimo Napoleone a cavallo nel dipinto di Jacques-Louise David “Bonaparte valica il Gran San Bernardo” e lo considerassimo enorme, per poi scoprire la sua altezza sotto il metro e settanta. Per esempio nelle relazioni amorose, all’inizio l’idealizzazione è persino fisiologica e non rappresenta un tratto patologico. Lo diventa solo nei casi di distorsione psicoaffettiva, quando non riusciamo a fare lo step successivo e connetterci con la realtà di un sentimento e di un rapporto. Non è però semplice, anche perché, sempre secondo Freud, l’idealizzazione agisce come proiezione dei propri desideri e bisogni insoddisfatti sull’altro. E “l’altro” in questione non sempre ha le spalle così larghe da caricarsi tutte le nostre aspettative e i traumi irrisolti.
A volte si arriva persino a concepire l’amore come strumento collaterale dell’idealizzazione. C’è un’opera di Roland Barthes del 1977, Frammenti di un discorso amoroso, dove il famoso filosofo e saggista riassume l’idealizzazione in una frase: “Io desidero il mio desiderio e l’essere amato non è altro che il suo accessorio”. L’idealizzazione, inoltre, non segue una linea retta e delle trame inequivocabili: possiamo vedere, o spesso “creare”, nel partner l’immagine di ciò che più ci fa comodo per proteggere il nostro io. Quindi è possibile plasmarlo sulla figura di un nostro genitore, sulla nostra attraverso il processo del mirroring, sul nostro opposto quando il desiderio combacia con il tentativo di evadere dall’io. Può essere quindi un gigante o Napoleone in base al percorso psicologico che abbiamo attraversato per tutta la nostra vita, a partire da quando eravamo bambini. Possiamo cercare protezione o distacco, intendere una relazione come un completamento della nostra persona o come un’aggiunta esterna, ma il problema sorge quando, anche dopo il comune abbaglio iniziale, fatichiamo a riconoscere i reali connotati del partner perché soffocati dal nostro bisogno. E spesso quando ce ne accorgiamo è troppo tardi.
Esiste anche la seduzione politica, e inevitabilmente l’idealizzazione entra in gioco anche qui, seppur con meccanismi diversi. Il gioco persuasivo di un politico consiste in un insieme di promesse spesso collegate a quella stessa protezione che cerchiamo nelle altre figure della nostra vita. Il populismo e altri movimenti ideologici mirano proprio a dipingere un rappresentante come il salvatore del popolo. Loro stessi insistono su questo tasto, e così Matteo Salvini “ha difeso i confini e l’Italia” (da chi?), i sovranisti vogliono difenderci dal diverso (diverso da cosa e da chi?). Ogni rapporto tra politico ed elettore prevede una luna di miele iniziale e una realizzazione della vera essenza di chi è stato votato, con il conseguente arrivo della fase di delusione. In Italia, nella Seconda Repubblica e nella fantomatica Terza, nessuna forza politica è riuscita a confermarsi per due tornate elettorali di seguito. L’idealizzazione di massa in ambito politico ha tratti quasi religiosi, viene richiesta una fedeltà simile a una fede, una fiducia cieca, e il collante sociale si crea quando tutti gli elementi portano alla creazione del messia politico, che sia Mussolini, Berlusconi, Grillo o Meloni. Anche questa è una forma di attaccamento, ma ancora più pericolosa perché attecchisce su così tanti soggetti che diventano gruppo e poi massa.
In politica, però, colui che viene idealizzato ne trae un vantaggio, che sia a scopo elettorale o come rafforzamento del potere mediatico. Nelle relazioni, invece, al soggetto idealizzato non sempre conviene che questo processo si inneschi, e in molti casi soffre come o più del soggetto idealizzatore. Essendo un fenomeno comune, è molto probabile che tutti noi siamo stati almeno una volta sia idealizzatori che idealizzati. In entrambi casi è bene ristabilire un contatto con la realtà per non generare delle aspettative eccessive o, nei casi più estremi, dei veri rapporti di dipendenza basati sulla distorsione dell’immagine. Nella mia esperienza, quando sono stato io il soggetto idealizzato mi sono sentito disorientato, poco capito. Soffrendo di ansia e di attacchi di panico, e parlandone già all’inizio di ogni relazione, i soggetti idealizzatori hanno visto in me quella figura “tenebrosa e un po’ maledetta” venuta fuori da qualche poesia di Baudelaire. La realtà è molto meno affascinante, e l’alone maudit viene meno quando le problematiche in questione condizionano anche la vita di coppia. In molti casi l’idealizzazione è proseguita attraverso il desiderio del partner di “salvarmi”. Oltre a provocarmi asfissia, questo meccanismo mi ha portato a dover recidere certi legami che ormai non avevano più alcuna aderenza con la realtà. Quando sono invece io a idealizzare, cerco spesso nell’altra persona un mio simile, ricalcando un po’ il testo di “En” e “Xanax” di Samuele Bersani. “Se non ti spaventerai con le mie paure, un giorno mi dirai le tue. Troveremo il modo di rimuoverle. In due si può lottare come dei giganti contro ogni dolore”. Idea particolarmente romantica, ma quasi sempre andata in frantumi perché due disagi sono più pesanti di uno e, soprattutto, i “giganti” in questione sono come quelli dei miei disegni da bambino: il frutto dell’idealizzazione. Un giorno imparerò e impareremo a disegnarci con le giuste dimensioni e i meccanismi di difesa dell’io saranno diversi. Fino a quel momento dovremo continuare a combattere contro i nostri Napoleone a cavallo e con le infanzie idealizzate, e forse la consapevolezza dell’idealizzazione stessa è il primo passo per la cura.
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