Lettera ad Andrea Di Consoli su Dimenticami dopodomani (Rubbettino)

Caro Andrea, ho trovato in questo tuo nuovo libro la chiarezza della maturità, la tenuta di uno scrittore che sta attraversando la fase più altruistica della sua vita. Mi viene […]

Mar 25, 2025 - 10:29
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Lettera ad Andrea Di Consoli su Dimenticami dopodomani (Rubbettino)

Caro Andrea,

ho trovato in questo tuo nuovo libro la chiarezza della maturità, la tenuta di uno scrittore che sta attraversando la fase più altruistica della sua vita. Mi viene in mente – sarebbe bello se v’incontraste – il lavoro del regista filosofo Ricky Farina e il suo aneddoto sulla libertà, che proviene dall’incontro con l’altro. Lui dice: “Mi sento in gabbia, gli altri mi bucano e mi liberano”. Al contrario, vedi, per me l’altro ha sempre rappresentato sartrianamente una prigione, un inferno, e mi sento libera quando non devo rendere conto a nessuno, avendo timore di cadere in ciò che Simone Weil definisce malheur: “Perché mi viene fatto questo male?”, è ciò che mi domando spesso nell’avere a che fare con le persone. Invece tu poni questa domanda cambiando punto di vista: “Perché ti viene fatto questo male?” domandi a ogni alterità, lasciando sgorgare un racconto. Non cerchi facili soluzioni, resti in ascolto. Tu lasci che gli altri ti liberino. Questa tua silloge è un testo d’avanguardia che non può essere classificato o incasellato, è un testo ibrido di racconti in versi, dove la chiarezza purificatrice si sostituisce a quell’antica modalità oscura di cui si fregiava la vecchia avanguardia. 

Amo questa tua visceralità, la trovo rivoluzionaria. Amo la tua apertura, la libertà che ti sei dato di fare dell’altro una porta che spalanca microcosmi. Gli incontri occasionali, i tradimenti, il nostro amato Sud, e i viaggi, i luoghi sacri, la bellezza, la commozione, l’incontro con tuo figlio, l’amore, il sesso, il perdono di antichi rancori, l’appartenenza al mondo che grida la sua non appartenenza ad alcun luogo, seppure poi torni sulla Basentana, nell’amata Lucania, con una delicatezza che è data dalla forza delle radici quando pur essendoci diventano aeree. 

Condivido la tua idea sull’identità, che sia poi una scoperta del vero Sé, quella comprensione dell’impossibilità di aderire una volta per tutte a un’identità che sia solida, unica, immobile. In questo tuo libro tutto si muove, per prima cosa i sentimenti, se fossero immobili sarebbero morti; i sentimenti mutano, ma l’umanità resta, come questa frase dolcissima che dà il titolo al libro: “Dimenticami dopodomani”, scambiata tra due amanti che forse non si rivedranno mai più. Dimenticami, ma non subito, non domani, almeno dopodomani. Sintomo di quest’esistenza fragile, effimera, dove le emozioni sono passeggere. Dimenticami, ma non adesso, non come tutti, non subito dopo avermi amato, lascia che qualcosa resti. Ogni istante, qui, resta, permane prima di sfuggire, e in questo trattenere l’effimero è il ritrovamento di una ragione per stare al mondo. Ogni dialogo si lascia trascinare nel profondo, con una chiarezza disarmante, una chiarezza vivida, colma di compassione per l’intera umanità. Tale comprensione è data solo a un certo punto a chi molto conosce, nello scandaglio di letteratura ed esistenza, nelle profondità più intime e viscerali, avendo accesso alla conoscenza dell’immane superiorità della Vita. Anche per questo amo la tua scrittura, perché vi è una saggezza che può sostenere chi legge, aiutandolo a farsi scivolare di dosso ogni pesantezza, e a considerare gli altri kantianamente come fine, ma soprattutto come porte per uscire dall’ego, con la levità della grazia.

«Cos’eri? Dove stavi, che abiti indossavi?».

Non chiedo più la carne che uccide,

ma il segreto della povertà e della ricchezza – e del dolore disonorato.

Vorrei, di ogni persona, 

interrogare la persona antica che si porta dentro.

Guardo meravigliato le meraviglie di questa città.

Conosco il dolore di Napoli che tutti negano

– e so quanto è finto, e so quando viene nascosto.

In ogni palazzo io vedo la Bellezza 

– e immagino sarte, falegnami, ceramisti, musicisti…

Ma poi torna la solita immagine, 

ossessiva, come una pressione sulla fronte:

un bambino affamato attorno a un fuoco triste,

e suo padre che prende in mano una gallina 

e improvvisa, per farlo sorridere, una filastrocca in dialetto.