Il tramonto delle ex popolari Con il risiko le due big nazionali si preparano a vincere tutto

Dei dieci gruppi esistenti prima della riforma Renzi, rischia di rimanere in campo solo Bper L’ultima l’Ops piovuta a Piazza Affari – di Bper sulla Popolare di Sondrio, vera ridotta delle banche mutualistiche – completa la mappa virtuale delle ex “grandi popolari” con oltre otto miliardi di attivi. Quelle che 10 anni fa il governo […] L'articolo Il tramonto delle ex popolari Con il risiko le due big nazionali si preparano a vincere tutto proviene da Iusletter.

Feb 17, 2025 - 18:04
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Il tramonto delle ex popolari Con il risiko le due big nazionali si preparano a vincere tutto

Dei dieci gruppi esistenti prima della riforma Renzi, rischia di rimanere in campo solo Bper

L’ultima l’Ops piovuta a Piazza Affari – di Bper sulla Popolare di Sondrio, vera ridotta delle banche mutualistiche – completa la mappa virtuale delle ex “grandi popolari” con oltre otto miliardi di attivi.

Quelle che 10 anni fa il governo Renzi voleva avvicinare al mercato per modernizzarle, forzandole a diventare spa per sanare il loro status ibrido. Detto che l’anno scorso il governo Meloni, con la legge Capitali, ha raddoppiato a 16 miliardi la soglia che obbliga a diventare spa, della soglia non c’è più bisogno. Perché la legge 2015 ha di fatto estinto, come spiega la tabella in pagina, i dieci araldi di un segmento che intermediava quasi il 30% del mercato creditizio. Più che un ritocco di ingegneria del sistema bancario sembra la trama dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. Di quei 10 marchi ne restano oggi quattro: ma due – Banco Bpm e Popolare di Sondrio – sono oggetto delle mire di istituti ben più grandi (Unicredit e Bper), cui sarà difficile resistere. E una, l’ex Popolare di Bari ribattezzata BdM, resta in mano pubblica cercando una via: tra l’utopia della leggendaria Banca del Mezzogiorno e il ritorno al mercato: a qualcuno, cioè, che se la pigli. Tra qualche mese, delle big ten rischia di rimanere solo Bper, pur se l’ex popolare da anni non è più una public company, avendo come socio perno al 25% (contando anche la parte in derivati) l’assicuratrice Unipol. Se il nuovo giro di fusioni nostrane finirà così cosa probabile – dal 2026 si potrà dire che le due maggiori “famiglie” di banche popolari sono confluite una in Intesa Sanpaolo (i poli storici di Bergamo, Brescia, Etruria e le due Venete), l’altra a Unicredit, che pare determinata e priva di grandi ostacoli nell’acquisizione di Banco Bpm che raggruppava i nuclei di Milano, Novara, Verona, Lodi. Creval è finita al Crédit Agricole, Bper-Sondrio è (già ora) sotto lo scudo di Unipol.

Effetti collaterali di una riforma maldestra, anche se istigata da 15 anni di malagestio (talora anche malefatte) di tanti banchieri popolari ruggenti. Ma bisogna guardare al futuro, a cosa rimane della storia di lavoro e dignità che per 160 anni ha incanalato i risparmi e il credito delle borghesie urbane, specie nei centri medi e piccoli del Paese. I dati del più recente Bollettino Bankitalia sono impietosi. Dalla riforma 2015 gli sportelli “popolari”, da 6.164, si sono decimati: a fine 2023 erano 653, circa il 3% del totale. Un’enorme migrazione bancaria, dai centri di potere piccoli e medi ai maggiori, in dialogo coi mercati e i grandi fondi esteri (oggi azionisti di maggioranza di tutti gli istituti quotati). Con ovvie ripercussioni, in parte avviate con le prime acquisizioni di ex popolari, su saldi, soggetti e origine dei debitori: che rischiano d’essere sempre meno e peggio serviti quando risiedono in quelle che potremmo chiamare le “aree bianche” del credito, dove il mercato non ha convenienza o voglia di arrivare.

Un esempio viene dai dati forniti da Assopopolari, che da anni ormai raggruppa, insieme alle 20 popolari rimaste, 34 banche – tra cui alcune spa ex mutualistiche – che si riconoscono «nel localismo come valorizzazione del territorio, impegno sociale e supporto a Pmi e famiglie». Le popolari rimaste, pur essendo una nicchia ridotta al 3% del mercato italiano, hanno quote di mercato da leader in tante province remote, spesso del centro-sud: a Matera, Benevento, Piacenza, Frosinone, Latina, Isernia, Brindisi, Lecce, Taranto, Ragusa, Siracusa, erogano infatti dal 15 al 30% dei crediti totali. Un’analisi sui conti 2023 di Alessandro Messina, ad di Atlas Sgr ed ex dg di Banca Etica, stimava che la minor propensione ai prestiti in Italia di Unicredit – rispetto a Banco Bpm – unita ai doppi affidamenti di singoli nomi, potrebbe ridurre di quasi 40 miliardi di euro i crediti alle imprese nostrane, se i due gruppi si fondessero in uno. E il credito restio – dal 2012 Bankitalia lo ha visto calare di 270 miliardi per le imprese italiane, e i primi dati mostrano un -2% nel 2024, con saldi peggiori per le Pmi – non è il solo problema. Le fusioni bancarie acuiscono anche la desertificazione delle filiali. L’Osservatorio dedicato di First Cisl ha censito che nel 2024 sono scomparsi altri 508 sportelli, con la massima accelerazione dal 2022 vista tra ottobre e dicembre scorso. Il 43% dei Comuni (3.381) non ha più una banca. Risiko e chiusure di sedi vanno a braccetto: il primo è funzionale alle seconde, per spremere sinergie di costo a beneficio degli azionisti, ma non necessariamente dei clienti. Tra l’altro, proprio il concerto di acquisizioni in corso rende meno probabile, dall’autunno in avanti, che le sovrapposizioni di rete oltre i limiti posti dall’Antitrust si possano risolvere cedendo sportelli ad altre banche; col rischio che le chiusure superino il ritmo da qualche anno “fisiologico”.

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