“Il seminatore”, una poesia di Humberto Ak’abal (1998)

Muore la sera ingoiandosi l’ultimo sguardo del giorno. Il seminatore appende la sua bisaccia di speranze al corno di cervo che ha inchiodato alla parete. Si siede a sognare, a seminare sogni nel sogno. A guardare nell’oscurità le sue illusioni. E se ne va volando, volando come un clarinero, o come il canto di un […] The post “Il seminatore”, una poesia di Humberto Ak’abal (1998) appeared first on L'INDIPENDENTE.

Mag 3, 2025 - 13:16
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“Il seminatore”, una poesia di Humberto Ak’abal (1998)

Muore la sera ingoiandosi
l’ultimo sguardo del giorno.

Il seminatore
appende la sua bisaccia di speranze
al corno di cervo
che ha inchiodato alla parete.
Si siede a sognare, a seminare
sogni nel sogno.

A guardare nell’oscurità
le sue illusioni.

E se ne va volando, volando
come un clarinero,
o come il canto di un tulul.

Si sveglia.
La notte se n’è andata.

Si rimette in spalla la sua bisaccia.

Il poeta è guatemalteco, di etnia quiché come Rigoberta Menchú, appartiene alla tradizione maya. E Rigoberta, premio Nobel per la Pace, 1992, così descrive la semina come una cerimonia nella sua comunità. «È questa una festa speciale, in cui vengono evocati anche la terra, la luna, il sole, gli animali che devono contribuire tutti, assieme alla semente, a darci da mangiare. I membri della famiglia recitano delle preghiere e promettono che non sprecheranno questo cibo. Poi, il giorno successivo, tutti quanti si dan la voce per andare a seminare» (E. Burgos, Mi chiamo Rigoberta Menchú, Giunti 1987, pp. 67-69).

Una volta seminato il mais, i fagioli e le patate, bisogna sorvegliare ogni notte che gli scoiattoli e gli altri animali selvatici non vengano a portarsi via i semi.

Ecco dunque che la notte, come scrive il poeta, è il tempo del sogno di un grande raccolto, perché, come scrive Rigoberta, il mais è il centro di tutto, «è la nostra cultura». E il mais, che è coltura e cultura, va sorvegliato sempre: anche quando spuntano le prime foglie, che sono oggetto, di altri gesti rituali, bisogna stare attenti perché gli uccelli non mangino le gemme.

Anche la poesia è un gesto rituale. I contadini maya chiedono alla terra il permesso di coltivare, di sfruttarla, così da potersi mantenere in vita, e il poeta, dal canto suo, si incarica di mantenere in vita i sogni suoi e le tradizioni millenarie del suo popolo: «Anche i sentieri ci insegnano qualcosa. Un sentiero vecchio resta per sempre un sentiero, che riassume in sé tutta la storia di coloro che vi sono transitati», scrive Rigoberta in un altro suo libro, dove impietosamente rileva che «le Nazioni Unite dovrebbero essere l’organismo di elezione per risolvere i problemi. Ma il fatto è che le vittime hanno non poche difficoltà ad accedervi» (Rigoberta, i Maya e il mondo, Giunti 1997, p.207 e 209).

Così il sogno di un poeta e di una scrittrice ambasciatrice di pace diventa il sogno di un popolo, quel popolo sterminato dagli squadroni della morte e che, nonostante questi orrori, continua a credere che l’intero universo non vada violato e che nessuno possa «comprare e vendere l’aria, la vita, e che questo non si possa fare con moltissime altre cose».

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