Il problema dei codici di condotta dei brand della moda

Dimostrare ai clienti che i diritti dei lavoratori sono tutelati non è la stessa cosa di garantire che i diritti dei lavoratori siano rispettati L'articolo Il problema dei codici di condotta dei brand della moda proviene da Valori.

Apr 30, 2025 - 06:44
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Il problema dei codici di condotta dei brand della moda

Quando sull’etichetta di un paio di jeans leggi “Made in China” non potrai mai sapere se il tessuto, la cerniera o un qualsiasi altro componente sia stato fatto in un altro Paese. “Made in China”, infatti, significa solo che quel paio di jeans è stato tagliato e cucito in Cina. E forse ti stupirà sapere che molto probabilmente nemmeno l’amministratore delegato del brand sa con precisione questi dettagli.

Moda e iper-globalizzazione: come funzionano oggi le catene del valore

Sembra strano? Eppure è una “logica” conseguenza dell’iper-globalizzazione delle catene del valore. Con il moltiplicarsi dei brand e dei fornitori in diversi Paesi, anche molto lontani tra loro, è nata la figura del “broker di abbigliamento”. Ovvero aziende che fungono da intermediari tra le esigenze dei marchi e i produttori di filato, di tessuti, di cerniere e bottoni, della cucitura e della confezione. La più grande di queste aziende si chiama Li & Fung e funziona come un personal shopper dei grandi brand per «ottimizzare ogni fase della produzione». Ma scommetto che non ne hai mai sentito parlare.

Li & Fung e le altre aziende di quel tipo hanno aggiunto un livello di opacità alle catene di approvvigionamento, di per sé già poco trasparenti. Le società di sourcing, infatti, non rivelano facilmente ai brand chi gestisce la produzione. Da parte loro, i brand hanno poco interesse ad avere informazioni sulle fabbriche. E così senza un controlli e supervisione sono spuntate come funghi fabbriche clandestine impegnate in una corsa al ribasso sui prezzi e, di conseguenza, sui diritti e i salari.

Codici di condotta nella moda: cosa sono e a cosa servono davvero

Una serie di scandali negli anni Novanta legati a rivelazioni sulle condizioni di lavoro – in alcuni casi anche minorile – nelle fabbriche che producevano vestiti per grandi brand (forse ricorderai la storia di Nike in Indonesia) ha squarciato il velo. I marchi della moda non potevano più nascondersi dietro al muro di ignoranza costruito per loro dalle aziende come Li & Fung. Ed è così che sono nati i codici di condotta, cioè testi che elencano ciò che i brand si aspettano dai propri partner. Ambiente e smaltimento dei rifiuti. Orari di lavoro e straordinari. Salute e sicurezza.

Ma, come spiega la Clean Clothes Campaign, «i codici di condotta sono diventati lo strumento con cui i brand cercano di dimostrare ai propri clienti che hanno a cuore i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici coinvolti nelle catene di approvvigionamento». Cosa molto diversa dal garantire che i diritti dei lavoratori siano effettivamente rispettati.

Perché i codici di condotta non tutelano davvero i lavoratori

Il problema dei codici di condotta è che la loro applicazione e il loro rispetto vengono dimostrati attraverso audit svolti da società di revisione internazionali. Che in genere hanno sede in Europa. L’attività di audit impiega migliaia di persone, con un giro d’affari di miliardi di dollari. Una percentuale vicina all’80% di quanto le aziende destinano alle “forniture etiche”. Il sistema di audit permette la creazione di capri espiatori: se qualcosa va male la colpa è della fabbrica o, al massimo, dell’auditor. Certamente non del brand.

Un esempio? Nel 2011 il governo del Brasile rivelò che in una fabbrica che produceva abiti per Zara i lavoratori erano pagati meno del salario minimo e almeno una persona aveva meno di 14 anni. Inditex liquidò rapidamente la cosa: secondo l’azienda che controlla, tra gli altri brand Zara, si trattava di un caso di «subfornitura non autorizzata». Il problema era il fornitore che non aveva rispettato il codice di condotta di Zara, non del brand. 

Altro problema degli audit: i costi di ispezione non sono sostenuti dai marchi della moda, ma dalle fabbriche che vengono controllate. Non stupisce, quindi, che spesso questi controlli vengano fatti in maniera sbrigativa e poco approfondita. E spesso le lavoratrici vengono “addestrate” a rispondere alle domande. 

Per finire, i brand in genere non fanno nulla quando scoprono che le fabbriche non sono conformi ai codici di condotta e non offrono incentivi per farli rispettare. L’architettura delle grandi aziende dell’abbigliamento non aiuta a migliorare le cose: spesso chi si occupa di responsabilità sociale d’impresa (CSR) lavora separatamente rispetto agli uffici che si occupano di fornitura. Ed ecco quindi che le misure della CSR prendono la forma di azioni di marketing, più che di reale assunzione di responsabilità.

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