“Il gesso colava nei miei slip, sentivo come se mi stessero cuocendo vivo. Una tortura da piangere”: 19enne posa per l’esame d’arte dell’amica, liberato dai pompieri
Accettare di fare da modello per il progetto artistico di un’amica? Un gesto generoso, forse persino lusinghiero. Ma per Paul Fifield, all’epoca 19enne studente di Cambridge, si trasformò in un’esperienza tragicomica e dolorosa che richiese l’intervento di ambulanze, pompieri e personale ospedaliero. Il suo racconto, affidato alla rubrica “Experience” del Guardian, è la cronaca di […] L'articolo “Il gesso colava nei miei slip, sentivo come se mi stessero cuocendo vivo. Una tortura da piangere”: 19enne posa per l’esame d’arte dell’amica, liberato dai pompieri proviene da Il Fatto Quotidiano.

Accettare di fare da modello per il progetto artistico di un’amica? Un gesto generoso, forse persino lusinghiero. Ma per Paul Fifield, all’epoca 19enne studente di Cambridge, si trasformò in un’esperienza tragicomica e dolorosa che richiese l’intervento di ambulanze, pompieri e personale ospedaliero. Il suo racconto, affidato alla rubrica “Experience” del Guardian, è la cronaca di un calco di gesso finito terribilmente male. Tutto accadde nella primavera del 1995. L’amica di Paul, Kate, doveva realizzare per il suo esame finale d’arte un torso maschile in stile scultura classica. Chiese a Paul se volesse farle da modello. “Certo che accettai”, racconta Fifield, “quale adolescente non sarebbe lusingato dalla prospettiva di essere immortalato come un dio greco?”.
Il setting fu il giardino della casa di Kate. Paul si preparò indossando “solo mutande a Y e un paio di calzini di Topolino prestati dal papà di Kate“, spalmato di baby oil come strato protettivo. Un dettaglio che si rivelerà fatale. “Mentre il gesso colava nei miei slip”, ricorda, “forse avrei dovuto preoccuparmi che Kate avesse usato l’olio per bambini come barriera invece della vaselina o della pellicola trasparente, ma ero convinto che si fosse informata e mi fidavo completamente. Col senno di poi, sospetto che avesse gettato il libro a metà prefazione”.
Kate iniziò a versare il gesso fine dal collo alle caviglie di Paul. “Mentre il primo strato si asciugava e Kate applicava liberalmente un secondo strato, iniziai a sentirmi a disagio”, continua Fifield. “Era una giornata calda, ma sotto il gesso mi sentivo come se mi stessero cuocendo”. Il disagio divenne presto intollerabile: “Voglio uscire”, insistette Paul. Kate acconsentì, ma fu allora che arrivò la terribile scoperta: “Mi resi conto che ero intrappolato“. Il problema non era solo il gesso ormai indurito, ma il fatto che, a causa dell’inefficacia del baby oil, aderiva dolorosamente a ogni pelo del suo corpo. “Anche il minimo movimento provocava una tortura da far lacrimare gli occhi”, esacerbata dai tentativi maldestri di Kate di liberarlo con martello e scalpello. Nemmeno l’acqua bollente funzionò, penetrando a malapena la dura corazza e aumentando solo la sensazione di star “bollendo”. “Cercai di non farmi prendere dal panico, ma era orribile sentirsi così impotente“.
Le sue urla attirarono l’attenzione di un altro amico, Ed, che passava di lì per caso e suggerì di chiamare un’ambulanza. Arrivarono anche due camion dei pompieri. Uno dei vigili del fuoco, racconta Paul, si presentò “brandendo una macchina fotografica e scattò una foto del capo dei vigili del fuoco locale che indicava e rideva” mentre Paul veniva faticosamente trasportato fuori dal giardino. Alla fine, ci vollero sei persone per trasportarlo attraverso uno stretto vicolo fino all’ambulanza (“un’agonia”). Fu persino scartato un piano per sollevarlo con una gru sopra il tetto della casa.
All’ospedale di Addenbrooke lo accolse una piccola folla di medici e personale sanitario, apparentemente più numerosi del necessario, e altre macchine fotografiche. Gli fu somministrato del gas esilarante (protossido d’azoto). “Almeno significò che potei unirmi al generale senso di ilarità”, ricorda Paul, mentre lo staff ospedaliero gli strappava via il gesso in quella che descrive come “la più aggressiva ceretta total body immaginabile – penso che a un certo punto abbiano usato anche dei martelli”. Il “dopo” non fu meno surreale: “Mi diedero un camice e un paio di forbici e mi mandarono a sistemare le mie aree più intime in un bagno dell’ospedale, il che provocò alcune reazioni sorprese da parte di altri pazienti che entrarono. A quel punto, non mi importava davvero più”. Un’esperienza tragicomica, fortunatamente senza conseguenze a lungo termine, se non il ricordo indelebile di un pomeriggio da “dio greco” finito decisamente male.
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