Il buco nero ESG delle banche italiane non quotate: oltre l’80% non ha una policy ambientale
Quando si parla di sostenibilità nel settore bancario, l’attenzione si concentra spesso sui grandi gruppi quotati. Ma che ne è delle numerose banche italiane non presenti in Borsa? La risposta arriva da un’indagine di Standard Ethics, che ha analizzato 43 istituti non quotati, tra cui popolari, casse di risparmio e banche territoriali, tracciando un quadro...

Quando si parla di sostenibilità nel settore bancario, l’attenzione si concentra spesso sui grandi gruppi quotati. Ma che ne è delle numerose banche italiane non presenti in Borsa? La risposta arriva da un’indagine di Standard Ethics, che ha analizzato 43 istituti non quotati, tra cui popolari, casse di risparmio e banche territoriali, tracciando un quadro tutt’altro che rassicurante.
Lo studio “La sfida della Sostenibilità per le banche non quotate Italiane. Un approfondimento sui maggiori istituti di credito per mezzi amministrati”, pubblicato il 14 aprile 2025, evidenzia una diffusa assenza di trasparenza e una scarsa aderenza agli standard ESG internazionali (ambiente, sociale, governance). Il dato più emblematico?
Solo il 14% ha reso pubblica una policy ambientale. Ma non va meglio sugli altri fronti: appena il 9% dichiara una policy sui diritti umani e nessuna ha definito un approccio all’intelligenza artificiale, tema ormai cruciale anche per il settore finanziario.
Se da un lato il 55% delle banche comunica obiettivi di riduzione delle emissioni di CO₂, solo il 17% punta chiaramente alla neutralità carbonica, e il 52% si impegna sull’uso di energie rinnovabili. Troppo poco, e troppo disomogeneo.
Sul fronte sociale emergono gravi lacune: appena il 19% pubblica una gender equality policy, il 26% una sulla diversity & inclusion. E se il 45% dichiara obiettivi sulla parità di genere, solo il 14% dei Consigli di Amministrazione è realmente bilanciato dal punto di vista del genere. Le politiche retributive legate a performance ESG? Presenti solo nel 33% dei casi.
Le carenze non si fermano qui. La governance mostra segnali contrastanti: se da un lato quasi tutte le banche pubblicano il Codice Etico (98%) e il Modello 231 (83%), solo il 22% lo allinea alle indicazioni ONU, OCSE e UE. L’adozione di strumenti di valutazione ESG resta episodica: nessuna banca analizzata possiede un rating ESG conforme agli standard europei. Solo il 7% dichiara un rating generico, il 24% si limita a premi o riconoscimenti non ufficiali.
Un altro nodo critico è l’approccio agli stakeholder e alla filiera: appena il 2% delle banche ha politiche ESG per la gestione dei fornitori, il 17% per il credito e il 7% per gli investimenti. Si tratta di aree sensibili, su cui Bruxelles sta già legiferando. Restare indietro significa esporsi a rischi reputazionali, regolatori e strategici.
Perché tanto ritardo? L’assenza di pressioni da parte di investitori istituzionali o agenzie di rating – abituali nel mondo quotato – potrebbe spiegare la scarsa propensione alla disclosure. Ma oggi non basta più “fare il minimo”. I clienti, i regolatori e la società civile chiedono impegno concreto, trasparenza e visione a lungo termine.
Il messaggio è chiaro: anche per le banche non quotate, la sostenibilità non è più una scelta opzionale. È una questione di competitività, di rischio e di fiducia. Resta da capire chi saprà cogliere questa sfida prima che diventi un obbligo di legge.
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