"I dazi di Trump?. Ridurre gli oneri per rilanciare la produttività"
SIAMO IN PIENA GUERRA commerciale tra due superpotenze, Stati Uniti e Cina, che, nel 2024, hanno generato il 57% della...

SIAMO IN PIENA GUERRA commerciale tra due superpotenze, Stati Uniti e Cina, che, nel 2024, hanno generato il 57% della crescita mondiale. Uno scontro che non è solo una partita a due ma ha conseguenze profonde sull’economia globale. Barriere tariffarie, dazi e sanzioni incrociate stanno ridisegnando il campo da gioco per le imprese. L’Italia si affaccia a questo scenario con un’industria in profonda sofferenza, che a febbraio ha registrato il venticinquesimo calo consecutivo della produzione industriale, con un -2,7% su base annua, in linea con l’indebolimento del clima di fiducia delle imprese. Il rischio immediato riguarda un massiccio riorientamento delle esportazioni cinesi verso l’Europa, che potrebbe essere inondata di beni a basso costo, minacciando il nostro sistema industriale già in difficoltà.
La pressione della Cina su diversi settori industriali europei è in forte aumento. Uno dei più esposti è la siderurgia, l’industria fondante dell’economia europea e italiana. La Cina produce oltre 1 miliardo di tonnellate all’anno, con 100 milioni destinate all’export, l’UE ne produce solo 130 milioni e l’Italia 20. La stretta protezionistica degli USA potrebbe colpire fino al 10% delle esportazioni cinesi di acciaio, un valore stimato in circa 7 miliardi. Il timore è che questi volumi potrebbero riversarsi sull'Unione Europea, erodere quote di mercato e spingere i prezzi e la redditività verso il basso. A complicare la situazione, le nuove e deboli misure europee di salvaguardia pensate per proteggere la produzione interna che sono state recentemente ridotte solo del 12%. L’acciaio è un prodotto portante della nostra economia ed è un settore strategico di base di quasi ogni altra industria. Le costruzioni valgono il 70% del consumo di acciaio, ma anche l'automotive consuma acciaio da stampaggio profondo. Il settore dà lavoro a 2,5 milioni di persone in Europa e circa 70mila in Italia, dove vale circa 60 miliardi di euro. La filiera siderurgica italiana è particolarmente efficiente e sostenibile rispetto agli altri Paesi europei. L'alta percentuale di produzione da forno elettrico e un forte utilizzo di rottame ci rende leader nella decarbonizzazione dell'acciaio. Un piano europeo che rafforzi la competitività del settore, come lo Steel Action Plan da poco avviato, può tutelare e favorire la crescita delle nostre imprese, anche attraverso misure di supporto agli investimenti in tecnologie più avanzate, incentivi per la transizione energetica e una regolamentazione più equa del mercato delle materie prime. Mentre l’Europa attraversa una transizione industriale dettata dal Green Deal, la Cina, che oggi esporta negli Stati Uniti 87 miliardi di prodotti legati alla meccanica, potrebbe dirottare parte di questi prodotti verso l’Europa, approfittando proprio delle trasformazioni in corso per inserirsi nel mercato.
Come per l’automotive, dove la penetrazione cinese è già evidente: le auto cinesi coprono oggi il 5% del mercato europeo, con proiezioni al 12% nel 2030 e al 20% nel 2035 e i nuovi dazi Usa potrebbero accelerare ulteriormente questo processo. Con il rischio di trovarsi impreparati di fronte a una competizione sempre più aggressiva su più fronti. In questo scenario, però, l’Italia gioca un ruolo che non può essere sottovalutato. Ogni anno esportiamo verso gli Stati Uniti beni per 67 miliardi di euro, a fronte di 25 miliardi di importazioni. Esiste un disavanzo commerciale, ma imporre dazi sul Made in Italy è profondamente incoerente. Significa colpire prodotti che gli americani apprezzano, cercano e che non possono sostituire: non esiste un’alternativa statunitense al design, alla qualità manifatturiera e al valore simbolico del Made in Italy. Se vogliamo tutelare la nostra competitività e salvaguardare il valore del Made in Italy, il primo fronte su cui intervenire è l’eccesso di regolamentazione che grava in particolare sulle piccole e medie imprese, che sono un valore imprescindibile per le filiere industriali europee, ma oggi sono schiacciate sotto il peso di una normativa comunitaria troppo complessa. È lo stesso “National Trade Estimate Report on Foreign Trade Barriers”, lo strumento ufficiale con cui Washington monitora gli ostacoli al libero scambio, a mettere nero su bianco come l’Unione Europea si distingua per l’alto numero di barriere normative, molte delle quali denunciate da tempo dagli stessi imprenditori europei. Il confronto con gli Stati Uniti è illuminante: tra il 2019 e il 2024, l’Ue ha prodotto oltre 13.000 atti legislativi, contro i 3.500 del governo federale Usa. Un rapporto di quasi 4 a 1, che fotografa con chiarezza il diverso approccio. Sotto accusa sono regolamenti ambientali e digitali spesso percepiti come sproporzionati, non tanto negli obiettivi, quanto nei metodi e nei tempi di attuazione. I costi di compliance sono diventati insostenibili per molte Pmi, che non hanno né la struttura né le risorse per tenere il passo con un’architettura regolatoria in continua espansione. È urgente predisporre misure che semplifichino le regole e riducano gli oneri a carico delle aziende, accompagnandole con strumenti di sostegno agli investimenti. Nel periodo 2017-2022 con Industria 4.0, le imprese hanno saputo rinnovarsi facendo registrare tassi di produttività superiori a quelli di Francia e Germania, dimostrando che una politica industriale mirata funziona. È fondamentale rilanciare una strategia europea che metta l’industria e le Pmi al centro. E sedersi al tavolo negoziale partendo dalle barriere non tariffarie, con l’obiettivo di ridisegnare una regolamentazione europea al servizio dell’innovazione, della competitività e degli investimenti. Un’Europa capace di regole semplici, trasparenti, accessibili è la migliore risposta possibile alla sfida globale e la via per trasformare il Liberation Day in una stagione di crescita.
*Vicepresidente nazionale di Piccola Industria Confindustria