Fed cammina su un filo e i mercati ruotano: da “America First” a “Anything but the USA”
Il commento di Gabriel Debach, market analyst di eToro, che fa una preview di quella che sarà la decisione della Federal Reserve

Si chiude oggi il tanto atteso meeting di marzo del Federal Open Market Committee (FOMC), con la decisione sui tassi e la pubblicazione delle nuove previsioni economiche. Il consenso di mercato è pressoché unanime (99% nei CME FedFunds) nell’aspettarsi che la Federal Reserve mantenga invariata la forchetta dei fed funds tra il 4,25% e il 4,50%. Jerome Powell, presidente della Fed, ha infatti più volte ribadito la necessità di “pazienza” prima di procedere con ulteriori tagli, sottolineando come l’economia statunitense resti “in buona forma” nonostante segnali di rallentamento. Lo sottolinea Gabriel Debach, market analyst di eToro spiegando che se la stabilità dei tassi non sembra in discussione, il vero nodo è un altro: quanto la Fed è disposta a spostare la percezione dei mercati sulla traiettoria futura?
Fed, cosa aspettarsi?
Il focus è sulla revisione delle previsioni macro (inflazione, crescita, disoccupazione) e sul nuovo “dot plot”, la mappa delle intenzioni dei membri del FOMC. Nell’ultima proiezione, la maggioranza prevedeva due tagli entro fine 2025 e una crescita del PIL reale al 2,1% (in rialzo dal 2% di settembre). Ma i dati recenti – tra timori occupazionali, guerre tariffarie e crollo della fiducia dei consumatori – potrebbero spingere la Fed a rivedere la crescita al ribasso e a considerare un maggiore allentamento in futuro.
Alla fine, più che sui numeri, la partita della Fed si gioca sulla percezione. Il sentiment dei consumatori è in picchiata, con attese di deterioramento delle condizioni di business superiori persino ai picchi del 2008 e aspettative di reddito familiare ai minimi dai lockdown. Un problema di fiducia che la banca centrale non può ignorare. La narrativa conta quanto le mosse sui tassi, perché l’inflazione percepita rimane elevata: il Conference Board la vede al 6% annuo, mentre l’Università del Michigan segnala un incremento al 3,9% sul lungo periodo, il massimo da trent’anni. Un mix letale: paura per il lavoro, perdita di potere d’acquisto e un “import price” che minaccia di spingere ancora più in alto l’indice PCE, la misura preferita dalla Fed. In questo scenario, Powell cammina sul filo, consapevole che ogni parola può spostare equilibri fragili.
Da “America First” a “anything but the USA”
E l’effetto si vede già sui mercati. Il posizionamento dei fund manager globali, secondo il sondaggio BofA Global FMS, mostra il “più grande calo di allocazione sull’azionario USA di sempre”. L’“America first” di inizio decennio sembra essersi trasformato in un “anything but the USA”, complice la debolezza del tech dopo l’ondata AI e l’incertezza politica generata dal ritorno di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca. Gli investitori stanno abbandonando l’azionario USA a ritmi record, cercando aree con minori rischi politici e valutazioni più attraenti.
“Effetto Trump”
Il tycoon – prosegue l’esperto – non ha mai nascosto le critiche alla gestione della Fed, accusandola di aver “fallito nel fermare un problema che essa stessa ha creato” e di dare troppa attenzione a diversità e clima a scapito della stabilità dei prezzi. Per ora, Trump non sembra intenzionato a rimuovere Powell prima del 2026, ma promette di influire maggiormente sulla politica monetaria. Un’incognita che i mercati non possono ignorare, anche se eventuali tagli ai tassi potrebbero giocar loro a favore.