È iniziata l’era del postwashing

Clima, ambiente, diritti umani: in nome di crescita e competitività aziende e governi sembrano aver superato la fase di “ripulitura” chiamata greenwahing L'articolo È iniziata l’era del postwashing proviene da Valori.

Apr 11, 2025 - 06:58
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È iniziata l’era del postwashing

L’era del greenwashing potrebbe essere durata un pugno di anni. Il periodo nel corso del quale le grandi aziende si sono sentite costrette a pubblicare (timidi) piani di transizione, a mascherare realtà troppo spesso scomode, a mostrare al mondo una maschera più verde che nera come il carbone o il petrolio sembra già quasi un ricordo. Il susseguirsi di crisi ed emergenze ha imposto una nuova retorica, ribadita anche nel piano Draghi adottato con entusiasmo dall’Europa intera: quella del “adesso non c’è più spazio”. Adesso bisogna fare “le cose serie”. Come se rispettare i diritti umani o combattere la crisi climatica fossero questioni accessorie. 

Ma facciamo qualche passo indietro, ripercorriamo le tappe che ci hanno portati fin qui e cerchiamo di capire perché il greenwashing potrebbe essere sul punto di lasciare il posto a una nuova era. Quando Laurent Fabius, all’epoca presidente della ventunesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite (Cop21) fece scoccare il martelletto di legno che segnava la chiusura del summit e l’approvazione dell’Accordo di Parigi, si è creduto in un sussulto da parte dei leader mondiali. Era il mese di novembre del 2015. Negli Stati Uniti il presidente era Barack Obama. In Francia c’era François Hollande. In Germania Angela Merkel. E pur con tutte le riserve che si possono avere nei loro confronti, la realtà è che sembra passato un secolo. 

Quel mondo lì aveva mostrato di ascoltare la scienza. Certo, dalle parole si sarebbe dovuto passare ai fatti. Ma per lo meno si affermò, nero su bianco, che  il mondo avrebbe dovuto centrare un obiettivo preciso: limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 2 gradi centigradi, entro la fine del secolo, rimanendo il più possibile vicini agli 1,5 gradi. E a condividere la necessità furono tutti i governi. Perfino i petro-Stati del Golfo, perfino la carbonifera India, perfino la Russia di Putin. 

Per farlo, era necessario però un impegno collettivo. Le istituzioni nazionali avrebbero dovuto dettare la linea con leggi ad hoc. Gli enti locali avrebbero dovuto fare altrettanto. Le aziende avrebbero dovuto accettare di adottare piani di transizione epocali, investendo non più nell’ottica breve-termista propria del neoliberismo ma con uno sguardo volto all’orizzonte. Banche e investitori avrebbero dovuto riorientare le loro strategie, anche qui superando le logiche del profitto ad ogni costo nel più breve tempo possibile. 

Per dare corpo a quell’impegno, insomma, serviva un cambio di paradigma. Occorreva aprire una nuova via, un nuovo metodo. Occorreva che tutti prendessero coscienza dell’emergenza. Come è stato successivamente con la pandemia. 

Per molte grandi aziende, però, “l’emergenza” è stata un’altra: cercare di mantenere il più possibile il business as usual facendo però credere (a governi, a clienti, a investitori) di essere parte in causa nella lotta contro i cambiamenti climatici. È in quella fase che è nato il greenwashing. Campagne mediatiche, sverniciate di verde sui loghi, iniziative (alcune anche reali, ma di dimensioni irrisorie rispetto al resto delle attività), alleanze, dichiarazioni, proclami, annunci in pompa magna e strette di mano. Al solo – o per lo meno principale – scopo di ripulirsi la faccia, ma non la coscienza.

Diciamolo: in realtà, moltissime di quelle grandi aziende, di quelle banche, di quei fondi d’investimento e anche molti di quei governi attendevano soltanto un evento, una crisi, un inciampo, una scusa qualsiasi per tornare sui loro passi. La prima spallata è arrivata con la pandemia, e con la successiva “necessità di ripartire”, di rilanciare le economie, le macchine produttive. E di farlo in fretta. Già lì c’è stato chi ha cominciato a spiegare che la transizione ecologica è bella, sì. È giusta, sì. Ma «qui bisogna fare i conti con la realtà». 

Il secondo evento è stato l’invasione dell’Ucraina. La “necessità” di sostenere la pace non tentando in ogni modo di dialogare bensì armando Kiev. «Servono miliardi», si disse. E anche alcune politiche climatiche avrebbero dovuto aspettare, o essere almeno ridimensionate, procrastinate. Il Green Deal approvato dall’Unione europea nel 2020 era insomma bello, sì. Utile, sì. Ma «adesso è tornata la guerra in Europa». 

La terza spallata è arrivata con la crisi energetica. La “migliore” possibile per chi sfrutta carbone, petrolio e gas. Quale occasione più ghiotta per dire che, con la diminuzione delle forniture russe di fonti fossili, non si poteva più rinunciare a quelle a disposizione in Occidente? 

Da ultimo, poi, è arrivato il colpo finale: l’elezione di Trump, il conseguente disimpegno americano sullo scacchiere orientale e l’immediato appello al riarmo da parte di Bruxelles e delle diplomazie del Vecchio Continente. Decine, centinaia, forse migliaia di miliardi dovranno essere spesi per costruire missili, carri armati, caccia, droni, bombe. O per l’intelligenza artificiale legata a scopi militari. 

Per le aziende il messaggio è stato chiarissimo. Un “liberi tutti” che probabilmente ha fatto mangiare le mani a chi ha investito milioni in campagne pubblicitarie, ha dipinto di verde cani a sei zampe, ha inventato slogan o aggiunto “green power” al proprio nome. Così, negli ultimi anni grandi banche e fondi d’investimento hanno uno a uno abbandonato le alleanze per il clima. Compagnie petrolifere internazionali hanno rivisto i loro piani di sostenibilità. Società minerarie hanno ricominciato a guardare al futuro fregandosi le mani. Per non parlare del finanziamento alla produzione di armi, sul quale lo sdoganamento è ormai totale, la propaganda martellante, le proposte di vie alternative messe sostanzialmente a tacere dai mezzi d’informazione mainstream. E in Europa non si parla d’altro se non di smantellare le peraltro insufficienti normative su ambiente, clima e diritti umani che negli ultimi anni erano state faticosamente approvate.

Del greenwashing, insomma, non c’è più bisogno. Via via, rimarrà solo qualche strategia di marketing volta a non perdersi per strada nicchie di clienti sensibili rispetto alla necessità di difendere foreste, natura, biodiversità, equilibri climatici. Senza più neppure bisogno di salvare la faccia. Cosa che, almeno, porta con sé una grande chiarificazione tra chi fingeva di preoccuparsi per il clima e chi, invece, lo faceva sul serio. Benvenute, benvenuti: è iniziata l’era del postwashing.

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