Dazi: per il lusso europeo il mercato Usa ora è a rischio
Gli analisti temono un calo della domanda in America: la turbolenza delle Borse potrebbe intaccare la fiducia dei consumatori con alto potenziale di spesa. Difficile evitare i dazi con la delocalizzazione: il flop della fabbrica di Louis Vuitton in Texas

Per le aziende europee del lusso il terremoto dei mercati finanziari innescato dai dazi di Trump rischia di avere conseguenze più gravi che in altri settori. Le preoccupazioni degli analisti non riguardano tanto le quotazioni delle varie LVMH, Richemont, Kering o Hermes, che in questi giorni si sono mosse più o meno in linea con gli indici europei, ma il timore che i sobbalzi di Wall Street abbiano un effetto negativo sulla domanda di beni di lusso in America.
La pausa di 90 giorni annunciata mercoledì 9 aprile dal presidente Trump ha fatto rimbalzare poderosamente i mercati, ma non cancella le fortissime incertezze.
Le Case del lusso sono sicuramente meno propense di altre aziende a piegarsi alla richiesta della Casa Bianca di trasferire la produzione negli Stati Uniti. Per loro l’etichetta made in Europe fa parte del fascino. E la storia di insuccesso della fabbrica di borse che Louis Vuitton avviò in Texas nel 2019, con una cerimonia inaugurale in cui Bernard Arnault volle avere vicino a sè Donald Trump, è l’esempio che la delocalizzazione nel lusso è difficile da fare funzionare. E’ più probabile, quindi, che i marchi europei tenteranno di scaricare sui consumatori americani l'aumento dei costi di importazione.
Tuttavia, un rallentamento marcato dell'economia globale potrebbe rendere questi aumenti più difficili da sopportare, anche per gli acquirenti più ricchi, che di solito sono in grado di assorbire meglio gli shock dei prezzi.
Possiamo anche mettere da parte per un momento la cupa previsione di JPMorgan, che mercoledì ha annunciato che le probabilità di una recessione negli Stati Uniti e nel mondo quest'anno sono salite al 60% dopo l'annuncio dei dazi di Trump. Bisognerà riaggiornare le previsioni a dopo la scadenza dei 90 giorni di pausa.
Resta però il fatto che il pubblico che compra beni di lusso è fatto da persone abbienti con entrate legate ai mercati finanziari. Dice Adam Cochrane, analista di Deutsche Bank: “L'indebolimento dei mercati azionari globali e l'incertezza economica più ampia peseranno sulla fiducia e, a nostro avviso, rimanderanno ulteriormente la ripresa della domanda di beni di lusso”.
Citi ha diffuso una nota martedì in cui si legge che i dazi Usa “peggiori del temuto” e il forte sell-off del mercato rappresentano “una minaccia significativa per il futuro della domanda di lusso negli Stati Uniti”.
Luca Solca, analista di Bernstein, definisce “trascurabile” l'effetto del primo round di dazi statunitensi, ma teme notevoli effetti a catena. “Ciò di cui dovremmo preoccuparci – scrive - sono gli impatti di secondo e terzo livello delle nuove politiche americane, se dovessero innescare una forte recessione globale e una correzione del mercato azionario”.
Secondo le stime di Bernstein, per le aziende europee del lusso le vendite in America rappresentano una quota contenuta dei loro ricavi, compresa tra il 15% e il 30%. Tuttavia, negli ultimi trimestri il mercato statunitense è diventato un importante motore di crescita, in quanto le aziende hanno spostato la loro attenzione in Usa per compensare il calo delle vendite in Cina.
Quando Bernard Arnault, patron di LVMH, il più grande marchio e gruppo del lusso al mondo, inaugurò nel 2019 una fabbrica di borse Louis Vuitton nel cuore del Texas assieme a Donald Trump, il messaggio era: il lusso si fa anche in America. Sei anni dopo, secondo Reuters, quel sogno sembra essere molto appannato.
Secondo numerose testimonianze di ex dipendenti, il sito ha faticato a rispettare gli standard qualitativi del marchio, con tassi di scarto dei materiali fuori norma, personale non qualificato e un ambiente di lavoro sotto forte pressione.
Johnson County, dove sorge la fabbrica, ha concesso al colosso del lusso uno sconto del 75% sulle tasse di proprietà per un decennio, promettendo un risparmio di quasi 30 milioni di dollari. In cambio, LVMH aveva promesso fino a 1.000 posti di lavoro entro cinque anni. Ora i dipendenti sono meno di 300.
Nella fabbrica texana le borse “Made in USA” – vendute comunque tra i 1.500 e i 3.000 dollari – sono assemblate da operai pagati inizialmente 13 dollari l’ora, saliti poi a 17 dollari. Alcuni arrivano da storie di migrazione, attratti dal prestigio del marchio, ma spesso impreparati a soddisfare le richieste tecniche di una produzione di lusso. A causa di errori frequenti, il tasso di pelle inutilizzabile avrebbe raggiunto in alcuni casi il 40%, il doppio della media di settore.