Cosa sono i tipping point, i “punti di non ritorno” della crisi climatica
Scopri cosa rischiamo superando i punti di non ritorno e perché è urgente agire per limitare il riscaldamento globale L'articolo Cosa sono i tipping point, i “punti di non ritorno” della crisi climatica proviene da Valori.

Abbiamo già superato il punto di non ritorno? È una delle domande più frequenti poste ai relatori di conferenze e incontri sui cambiamenti climatici. Diciamo subito che la risposta non è facile né univoca, e anzi la domanda necessita di molti chiarimenti e approfondimenti, a partire da “cos’è il punto di non ritorno?”.
Per prima cosa va puntualizzato che gli obiettivi di 1,5 e 2 gradi centigradi indicato dall’Accordo di Parigi sul clima non rappresentano, ad esempio, dei punti di non ritorno. E nemmeno dei confini chiari fra sicuro e catastrofico. Sono dei limiti posti per un accordo politico, che prima della Cop21 del 2015, la ventunesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, non avevano nemmeno riscontro preciso, se non occasionale, nella bibliografia scientifica.
350 ppm: la soglia critica per il clima
Se proprio vogliamo trovare un punto di non ritorno nella bibliografia, questo potrebbe corrispondere alle 350 ppm (parti per milione) indicate da James Hansen nell’articolo Target atmospheric CO2: Where should humanity aim?. Hansen in questo storico articolo, da cui nacque l’organizzazione non governativa 350.org, afferma infatti che i dati paleoclimatici indicano come il raddoppio della concentrazione di CO2 nell’atmosfera terrestre porterebbe a un riscaldamento di circa 3 gradi centigradi (fino a 6 gradi considerando feedback lenti). Il Pianeta, con quantitativi di CO2 così elevati, in passato era d’altra parte quasi privo di ghiacci. E rimase tale finché la CO2 non scese al di sotto i 450 ppm circa. Senza interventi, questo limite sarà superato al contrario entro pochi decenni. Per evitare effetti catastrofici e irreversibili, afferma Hansen, occorre dunque mantenere la concentrazione di biossido di carbonio entro le 350 ppm.
Questo però non è, rigorosamente parlando, un punto di non ritorno. Potremmo piuttosto chiamarla “soglia di sicurezza scientifica”. In pratica, siamo già in un territorio inesplorato e oltre il limite prudenziale.
Tipping point climatici: cosa sono e perché sono cruciali
Dunque, cos’è davvero un punto di non ritorno? Per parlarne, e dare la risposta, dobbiamo fare un passo indietro, e capire come si definisce in bibliografia e in lingua inglese. Il termine corretto infatti è tipping point, che in italiano, letteralmente, si tradurrebbe punto di ribaltamento o punto di svolta. Qualcuno lo chiama anche punto critico, ma nel parlare quotidiano, semplice e comunicativo in italiano appunto si usa il termine punto di non ritorno. Proviamo allora ad approfondire in base alla bibliografia scientifica.
Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), un punto di non ritorno è «una soglia critica oltre la quale un sistema si riorganizza, spesso in modo brusco e/o irreversibile». Possiamo immaginare il tipping point come un pallone fermo in una conca: lì è stabile, anche se lo spingi un po’, torna sempre al punto precedente. Ma se continuiamo a spingerlo e supera un certo punto in cima a un dosso, il pallone non tornerà più indietro: rotolerà in un’altra conca, in un nuovo equilibrio molto diverso dal primo. Quel punto in cima è il tipping point, il punto di non ritorno: una volta superato, il cambiamento è rapido, drastico e spesso irreversibile. È così che funzionano molti sistemi naturali, incluso il clima.
Gli otto principali tipping point della crisi climatica
Detto questo, la domanda iniziale resta senza risposta. O meglio, la prima risposta è: dipende da quale tipping point stiamo analizzando. Non esiste infatti un unico punto di ritorno del clima, o se esiste, a parte le citate 350 ppm, non lo conosciamo. Esistono invece vari fenomeni e aspetti del sistema climatico che possono presentare uno o anche più punti di non ritorno.
Sono otto i tipping point considerati dall’IPCC nel più recente rapporto di valutazione, l’AR6. Nel dettaglio, eccoli:
- Calotta glaciale della Groenlandia. Il rischio di fusione totale porterebbe a uninnalzamento del livello del mare di 6-7 metri
- Calotta glaciale dell’Antartide occidentale. È una porzione di Antartide che appoggia sul continente, con una propaggine sull’oceano del Sud. Una fusione del “perno” su cui poggia, potrebbe farla collassare anche improvvisamente, con effetti improvvisi sempre sul livello del mare.
- La corrente del Golfo, o meglio Circolazione Meridionale Atlantica (AMOC). Forse il più noto tipping point. Un suo indebolimento o peggio collasso porterebbe cambiamenti climatici improvvisi con un opposto raffreddamento del clima europeo e impatti globali anche su monsoni e cicloni tropicali.
- Permafrost artico. Qualcuno lo chiama il mostro nascosto. Lo scongelamento del permafrost porterebbe al rilascio di metano e biossido di carbonio, amplificando il riscaldamento globale (feedback positivo).
- Barriera corallina tropicale. Un aspetto di cui si parla poco. Un collasso dei sistemi corallini dovuto ad aumento di temperature e acidificazione degli oceani potrebbe avere impatti devastanti su ecosistemi, pescosità e sulle popolazioni delle zone tropicali.
- Foresta amazzonica: il suo degrado ed eventuale transizione verso savana, comporterebbe una enorme perdita di biodiversità e rilascio di CO2.
- Foreste boreali (taiga). Lo stress da calore e incendi potrebbero portare a un rapido degrado con diminuzione degli assorbimenti e aumento del rilascio di anidride carbonica e amplificazione del riscaldamento globale.
- Ghiaccio marino artico estivo. La possibile completa scomparsa nei mesi estivi potrebbe avvenire una volta al decennio anche con un riscaldamento contenuto entro i +2 gradi centigradi.
Effetti a catena
Alcuni studi recenti parlano anche di un possibile effetto a catena: il superamento di un tipping point potrebbe innescarne altri. Ora però rimane il dubbio, qual è la situazione di questi tipping point? Per quali di essi siamo vicini alla soglia critica o la abbiamo già superata?
Come detto, di alcuni, la AMOC e il permafrost, abbiamo già parlato in recenti articoli. Riassumendo, per questi come per quasi tutti gli altri tipping point la soglia precisa non è nota, ma molti elementi ci dicono che siamo pericolosamente vicini a superarla. Secondo alcuni scienziati addirittura la abbiamo già superata.
Ghiacci polari: rischi e punti critici della fusione
Raggruppiamo in questo esempio 1, 3 e 8, parlando così in genere della situazione dei ghiacci polari. Le calotte della Groenlandia e dell’Antartide si trovano in un equilibrio precario sulla terra ferma. Un collasso del perno che poggia sulle terre emerse, come sopra accennato, potrebbe far precipitare in mare il ghiaccio, causando locali onde di tsumani e un repentino e irreversibile innalzamento dei mari. Inoltre l’acqua di fusione si riversa nell’oceano, ed ecco il legame con la questione corrente del Golfo.
L’ultimo rapporto dell’IPCC non entra troppo nel dettaglio, ma dice comunque che un aumento della temperatura media globale tra 2 e 3 gradi centigradi comporterebbe nei decenni successivi un’accelerazione della fusione delle calotte antartica occidentale e della Groenlandia.
Il collasso della calotta glaciale dell’Antartide occidentale comporterebbe un innalzamento del mare di un ulteriore metro, in aggiunta alla forbice di incertezza fra 30 e 100 centimetri con cui comunque dovremo fare i conti. Riguardo alla Groenlandia, secondo alcuni studi il punto di non ritorno sarebbe tra a 0,8 e 3 gradi centigradi di riscaldamento globale rispetto al periodo preindustriale. La fusione avverrebbe gradualmente, nel corso di millenni.
La foresta amazzonica: il rischio di collasso ecologico
Le foreste svolgono un ruolo cruciale nella regolazione del clima sia a livello macroregionale che globale. L’Amazzonia in particolare è un emblema delle foreste tropicali, per la sua dimensione, maestosità e biodiversità. La minaccia antropica alla foresta è duplice: diretta e indiretta. La prima è la deforestazione, che consiste nello strappare terreni per uso agricolo e allevamento, per impiantare dighe con la scusa di produrre energia idroelettrica ritenuta pulita. E poi ci sono gli incendi, la cui azione è amplificata da siccità e ondate di caldo che rendono più bruciabile la biomassa.
Nel dettaglio si ritiene che la parte più a rischio sia la regione amazzonica sud-sudorientale, dove maggiori sono le attività umane. Una ricerca pubblicata su Science fornisce un esame dettagliato delle cause e conseguenze della scomparsa o della perdita di foreste e del generale degrado della vegetazione nel bacino amazzonico. L’analisi, intitolata “The drivers and impacts of Amazon forest degradation”, ha analizzato nel dettaglio questo aspetto. Manca però l’individuazione di un vero tipping point. Secondo lo studio circa il 38% dell’Amazzonia è attualmente degradato a causa di incendi, disboscamento selettivo, effetti di margine e siccità estreme.
Barriere coralline: un tipping point già vicino
Si tratta in questo caso di un tipping point di cui si parla poco, ma che risulta molto importante per gli ecosistemi, la pescosità ed anche per l’effetto-pozzo di CO2 garantito dagli oceani (ovvero la capacità di assorbimento del biossido di carbonio). Dai dati dell’IPCC la situazione appare già di punto di non ritorno: nel Rapporto Speciale Global Warming 1.5 si afferma che già a +1.5 gradi si rischia la perdita del 70-90% delle barriere coralline tropicali, a +2 gradi del 99%.
Il fenomeno dello sbiancamento (bleaching) si verifica quando le temperature marine superano anche di soli 1–2 gradi centigradi i valori medi per periodi prolungati, causando l’espulsione delle alghe simbionti (zooxanthellae) dai coralli. Senza queste alghe, i coralli perdono colore, ma soprattutto energia, e possono morire.
Entra in gioco anche l’acidificazione degli oceani, strettamente collegata al tipping point dei coralli, che ne amplifica gli effetti negativi, anche se agisce con meccanismi diversi. Negli ultimi anni si guarda con preoccupazione al fenomeno delle ondate di caldo marino, fenomeni di sbiancamenti di coralli si sono osservati in particolare nel 2017, 2019, 2020 e 2022.
Abbiamo già superato alcuni punti di non ritorno?
Come si capisce, la questione è complessa. C’è tanta bibliografia su questi otto tipping point, ma per nessuno di essi si sa esattamente dove si colloca e a che punto siamo. Poi, potrebbero esserci altri punti di non ritorno, poco studiati o anche non noti. Ad esempio, come elenco brutale: la scomparsa dei coralli d’acqua temperata, l’innesco di incendi autoalimentati nelle foreste boreali, il collasso del monsone dell’Africa occidentale, la destabilizzazione delle calotte antartiche minori, un cambiamento irreversibile nella circolazione oceanica del Pacifico, il collasso della biodiversità funzionale negli ecosistemi e la mancata ricostituzione del ghiaccio marino artico in inverno.
Come ipotesi poi potrebbe esistere un tipping point che innesca temporali e tornado inimmaginabili, per la diffusione di pollini allergeni, per la produzione di prodotti tipici locali come i tanti esistenti in Italia, o magari, per la diffusione delle zanzare portatrici di malattie tropicali. Forse, nessuno lo sa e lo ha pensato, l’estate estremamente calda del 2003 è stato il segnale del superamento del punto di non ritorno delle estati europee. Da allora infatti il caldo estremo estivo è diventato una nuova normalità.
Effetto serra incontrollato: un’ipotesi estrema
Infine, una riflessione su un tipping point assoluto ed estremamente catastrofico: l’effetto serra incontrollato o “autostrada del pianeta Venere”. Teorizzato e lanciato provocatoriamente in un libro da James Hansen, un effetto serra incontrollato è un punto di svolta che vede la CO2 oltre una certa soglia e di conseguenza le temperature aumentare all’infinito. È così estremo che gli oceani evaporerebbero e il vapore acqueo sarebbe disperso nello spazio, come avviene appunto sul pianeta Venere, che è uno stato climatico irreversibile. Per fortuna, per ragioni fisiche, l’ eventualità di un effetto serra incontrollato non è possibile sul pianeta Terra.
Ora però bisogna rispondere alla domanda: abbiamo già oltrepassato il punto di non ritorno? Non lo sappiamo, ma ci siamo senz’altro pericolosamente vicini. Non è questo comunque il punto, ribadiamolo ancora una volta. Secondo l’IPCC ogni decimo di grado di aumento di temperature evitato riduce il rischio di superare dei punti di non ritorno. È per questo che occorre agire in modo drastico e immediato per limitare le emissioni di gas ad effetto serra. Prima che sia, appunto, troppo tardi.
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