Alpinismo, letteratura, fotografia: a Torino una grande mostra ricorda Guido Rey
Si inaugura oggi al Museo della Montagna l’esposizione dedicata a Guido Rey, “lo scrittore di montagna italiano più letto prima di Walter Bonatti”. Un torinese innamorato del Cervino, ma capace di stupirsi sulle Torri del Vajolet. Fino al 18 ottobre L'articolo Alpinismo, letteratura, fotografia: a Torino una grande mostra ricorda Guido Rey proviene da Montagna.TV.






“Io credetti, e credo, la lotta coll’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede”. Questa frase è stata stampata per decenni sulle tessere del CAI. Parole figlie del loro tempo e di una concezione eroica dell’andar per montagne, che il Club Alpino Italiano ha usato a lungo come motto.
Una scelta logica, perché Guido Rey (1861-1935), torinese purosangue, è stato una figura importante dell’alpinismo italiano. Per le sue ascensioni, dato che tra le sue cinque salite al Cervino c’è la prima assoluta (anche se non completa, e usando una scala di corda) della Cresta di Fürggen, nel 1899, con le guide Aimé, Antoine e David Maquignaz. Qualche anno prima, aveva compiuto la terza ascensione dell’elegante cresta Sud della Punta Dufour del Monte Rosa, che viene ripetuta spesso anche oggi. Ma la fama di Guido Rey era tale che la via fu ricordata con il suo nome.
L’alpinista torinese, che era nipote del fondatore del CAI Quintino Sella, cugino del fotografo Vittorio Sella e amico di Edmondo De Amicis (l’autore del celeberrimo Cuore) fu uno scrittore tradotto in francese, inglese e tedesco, e un fotografo premiato in esposizioni internazionali.
Il suo Il Monte Cervino, un bestseller impreziosito da fotografie e disegni, fu stampato a Milano da Hoepli nel 1904. Un anno dopo uscì l’edizione francese pubblicata da Hachette, nel 1907 quella inglese (The Matterhorn) fu data alle stampe a Londra dall’editore Fisher Unwin. Ebbe grande successo anche Alpinismo acrobatico, del 1914, il libro in cui Rey raccontò la sua scoperta dell’arrampicata sulle Dolomiti.
Celebre per i nostri bisnonni, eternato per molti di noi dalla frase sulle tessere del CAI (che a partire dal 1968 è stata duramente criticata), Guido Rey è stato quasi dimenticato in tempi recenti. Bene ha fatto il Museo Nazionale della Montagna a dedicargli la mostra Guido Rey. Un amateur tra alpinismo, fotografia e letteratura, a cura di Mattia Gargano e Veronica Lisino, che si inaugura al Monte dei Cappuccini oggi 18 aprile e resterà aperta fino al 19 ottobre.
Il Museo, che ha già dedicato a Rey una mostra nel 1986, conserva fotografie e documenti dell’alpinista torinese. “La mostra che s’inaugura in questi giorni propone un ritratto a tutto tondo di Guido Rey, una figura-chiave al crocevia tra alpinismo, fotografia e letteratura, legata tanto alla cultura piemontese quanto a quella internazionale” spiegano i curatori.
Rey era figlio di un industriale di origine francese, scelse di non dedicarsi al business di famiglia ma di concentrarsi sulla montagna, vivendo un po’ di rendita e un po’ dei proventi delle sue foto e dei suoi libri . “Il termine amateur, tra XIX e XX secolo, indicava chi si dedicava a un’attività per puro passatempo. L’essere dilettante consente a Rey di esprimersi in maniera più libera e disinvolta, tra scrittura, disegno e fotografia” proseguono Lisino e Gargano.
Al centro della mostra del Museo della Montagna è uno spazio dedicato alla vita di Guido Rey. Intorno sono quattro sezioni tematiche: Letteratura alpinistica, Fotografia di montagna, Fotografia tra montagna e pittorialismo, Fotografia pittorialista. Il visitatore si muove tra imprese alpinistiche, cultura fotografica e interessi letterari, accomunati dagli “occhi pieni di visioni” e dall’“animo ricco di ardimenti” di Rey.
La mostra è stata realizzata con la collaborazione degli eredi di Rey e di enti prestatori come l’Associazione per la Fotografia Storica, la Biblioteca Nazionale del CAI, CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, la Fondazione Sella e la Società Fotografica Subalpina.
“Le attività in avvio ad aprile sono una fotografia delle diverse anime del museo e della sua strategia. La valorizzazione della documentazione storica, l’indagine sui temi della montagna e della società contemporanea, l’incremento del patrimonio archivistico e collezionistico, la promozione della cura della memoria storica come strumento per la crescita di cittadini consapevoli e partecipi”, commenta Daniela Berta, direttrice del Museo.
Il Monte Cervino, il libro più noto di Rey, è sia un testo di storia sia un racconto di avventure private. Belle, tra le altre, le pagine dedicate al primo incontro a distanza con il Cervino. “Dalla vetta modesta d’un monte di duemila metri, nell’alba limpida d’un giorno d’estate, un uomo grande additava a me ed ai miei compagni una grande piramide azzurra, lontana”. “Quello è il Cervino ci diceva, e un brivido di ammirazione invadeva le piccole menti alla vista della forma strana ed aguzza”.
Più tardi, dopo la salita della Cresta di Fürggen, Rey e le sue guide scendono dal Cervino investito dalla bufera. “Era incominciata la disperata discesa. Scivolavo, strisciavo ora sul dorso, ora col volto contro la rupe; mi serravo contro alla montagna cercando di adattare ad essa il mio corpo; ora mi facevo leggero per non gravare su un sostegno incerto, ora mi lasciavo cadere con tutto il mio peso, quando, con la coda dell’occhio, scorgevo un luogo che accogliesse i miei piedi” scrive Guido.
“Quale alpinista non conosce le piccole miserie di simili momenti? Tutto è d’impaccio: il sacco che si sposta, la macchinetta fotografica che urta qua e là, la giacca che v’impedisce i moti; persino la tesa del cappello vi dà fastidio. Scorgevo appigli ove la roccia era liscia, e là ov’era un masso su cui posare il piede vedevo un vuoto; improvvisi bagliori mi accecavano le pupille; le rupi prendevano forme stravaganti, di torvi profili, di fauci spalancate, di statue abbattute, di tumuli aperti”.
“Poi, all’improvviso, la discesa disperata finisce; il lumicino errante si è fermato; lo raggiungo, tasto con la mano una parete oscura: è di legno. Oh! Una porticina s’apre sotto la spinta; sono nel rifugio. Benedetto il rifugio! Benedetto il Club Alpino che l’ha costrutto!”.
Guido Rey scrive parole memorabili anche in Alpinismo acrobatico, il primo libro che un alpinista “occidentale” dedica alle Dolomiti. Siamo nel 1910, la Prima Guerra Mondiale è alle porte, e il viaggio dell’autore verso il Trentino comprende un incontro con Cesare Battisti, che vuole far diventare la sua terra italiana. Rey, che si lega alla corda di Tita Piaz, grande guida e altro irredentista famoso, scopre la bellezza della dolomia verticale.
Anche se la quota è modesta, e non ci sono “alti graniti e ghiacciai”, le Torri del Vajolet sono avversarie tenaci. A vederle da sotto, queste guglie “affacciate su abissi impensati” sembrano “merlature dirute, minareti screpolati, tronchi di obelischi infranti”. A toccarle, sembrano formate da “una lava bianca, abbagliante sotto il sole, una cosa tonda, bucherellata e molle e pur tagliente e saldissima, entro cui penetrano le dita e l’agguantano bene”.
Anche “il piede si modella alle forme della rupe, sente la bontà del macigno, si libra sicuro poggiato a orli impercettibili su balze verticali”. A introdurre il cinquantenne a quelle “inverosimili ginnastiche” era Tita Piaz. L’uomo del Cervino era capace di scoprire, e stupirsi.
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