Viviamo una vita insostenibile a 2x, abbiamo perso ogni capacità di divertirci davvero
Viviamo una convulsa, insostenibile vita in 2x, che ci ha abituato alla programmazione ossessiva della nostra esistenza, sottraendo energie al divertimento in sé per cederle a una serie infinita di note sul calendar, prenotazioni online, liste d’attesa, incastri con le schedule giornaliere dei nostri amici che non corrispondono quasi mai alle nostre. Al punto che l’organizzazione al millimetro del quando, quanto e come dovremmo divertirci ha semplicemente soffocato il motore del piacere. L'articolo Viviamo una vita insostenibile a 2x, abbiamo perso ogni capacità di divertirci davvero proviene da THE VISION.

Per imparare a divertirsi bastano 14 giorni e poco meno di 30 dollari. O almeno, così risulta dal prezzario di Catherine Price: una delle più famose Fun Coach statunitensi, pioniera del ramo del coaching che si occupa di felicità e divertimento, ormai molto noto anche in Italia. Accanto ai corsi online a pagamento, nella sua newsletter Price propone le cosiddette “funtervention”, un format in cui condivide con la sua community delle liste di consigli concreti “per accogliere più divertimento nella propria vita”. Si tratta di “interventi” molto diversi tra loro: sull’alimentazione, l’utilizzo del tempo libero, la mindfullness, il rapporto con la tecnologia. Attorno a queste guide omnicomprensive gli iscritti su Substack possono poi condividere in un forum i progressi e fallimenti in cui incorrono nel loro percorso verso una maggior felicità – difficile dire se qualcuno di loro sia tanto ligio e fortunato da raggiungerla davvero in due settimane scarse. Ai possibili detrattori che si domandano il perché delle funtervention, Price risponde prontamente nel trafiletto pre-impostato in cima a ciascuna mail: “Perché ne abbiamo bisogno”.
All’interno dei suoi spazi virtuali Price fa un po’ da gerofante rosso, raccogliendo adepti a suon di frasi motivazionali e di positività zen esasperata, a cui è davvero difficile dar credito, anche a causa di un approccio iper-semplicistico che pretende di poter risolvere ogni problema esistenziale con un manuale di how to, un workshop, o un corso in streaming. C’è però un punto fondamentale su cui non posso che essere d’accordo con questa famosa coach: il divertimento è uno stato emotivo di cui abbiamo sempre e più fortemente bisogno, e che facciamo sempre più fatica a ottenere.
Quando ci sono decine di studi globali e classifiche sulla felicità, rassegne stampa di buone notizie che ci offrono ragioni per essere allegri, workshop sulla messa in scena del divertimento, guru che si occupano di insegnarcelo, e varie app per monitorare i nostri sentimenti positivi, diventa piuttosto evidente quanto il nostro desiderio di divertimento sia difficile da soddisfare. Sembra infatti siano sempre più frequenti le circostanze in cui sentiamo di divertirci meno di quanto dovremmo: basta guardare alle attività che per molto tempo hanno rappresentato una fonte quasi garantita di divertimento – serate, vacanze, festività, concerti –, e che ora sembrano sopraffarci, esaurirci e infastidirci – o non interessarci proprio, come tutti quegli “eccessi” connessi allo svago a cui le nuove generazioni stanno rinunciando senza rimorso. Le situazioni di aggregazione e intrattenimento sono diventate così esercizi faticosi – costi alti, poco riposo, spesso lunghe code e affollamento – proprio perché spesso finiscono per non tornarci indietro i sentimenti positivi di cui andiamo in cerca, o almeno non quanti vorremmo.
D’altra parte, non è facile trovare uno spazio in cui goderne davvero, in un quadro che è lo stesso che ci ha insegnato la FOMO, la performance totalizzante e il confronto serrato con le attività, i passatempi, la felicità di chi ci circonda, facendoci dimenticare quasi del tutto quel disinteresse ludico che è condizione necessaria del divertirsi davvero. Se siamo in una situazione di “economia della scarsità” da divertimento, e non riusciamo a sfruttare i pochi momenti di libertà e spensieratezza che il nostro tempo libero ci concede, infatti, è perché li abbiamo mano a mano epurati di qualsiasi spontaneità, pretendendo di vivere emozioni che non solo devono essere selezionate, gestite, controllate, ma addirittura pianificate. Fa tutto parte di una assurda, convulsa, insostenibile vita vissuta in 2x, che ci ha abituato alla programmazione ossessiva della nostra esistenza, sottraendo energie al divertimento in sé per cederle a una serie infinita di note sul calendar, prenotazioni online, liste d’attesa, incastri con le schedule giornaliere dei nostri amici che non corrispondono quasi mai alle nostre. Al punto che l’organizzazione al millimetro del quando, quanto e come dovremmo divertirci ha semplicemente soffocato il motore del piacere.
Non è che non abbiamo idea di come divertirci, quindi. È che il modo in cui poi decidiamo di organizzare il nostro divertimento non ci sembra mai ottimale. Questo perché tendiamo a comportarci con i nostri momenti di piacere come faremmo con gli acquisti, dove siamo guidati dal rapporto qualità/prezzo, e quindi esigiamo la migliore qualità che i nostri soldi possono comprare. Allo stesso modo, ci siamo abituati a definire un rapporto divertimento/tempo. In una vita ideale, ci piacerebbe esigere il divertimento maggiore che possiamo ottenere nel tempo che abbiamo a disposizione. Se abbiamo due ore per svagarci, vorremmo spenderle nell’attività a godimento maggiore. E non ci va giù che nella realtà questa legge esatta non possa reggere, tanto da continuare ad affannarci per un livello di divertimento che, stando al tempo investito, secondo i nostri calcoli dovremmo esserci meritati, come se i nostri sentimenti positivi fossero qualcosa di erogabile istantaneamente attraverso un clic – o di ottenibile con una transazione col Pos.
L’epoca dell’individuo come “progetto”, di cui parla il filosofo Byung-Chul Han, ha creato un contesto sociale in cui la cultura dell’auto-miglioramento e del progresso si è infiltrata persino nei nostri momenti personali e apparentemente privati, trasformando ogni scelta e azione in una mossa strategica per avanzare in un percorso con cui perfezionarci, limarci nei difetti e nei contrattempi, ottimizzarci, appunto. E in questo contesto anche divertimenti e svaghi dovrebbero trovare un’utilità, o quantomeno servirci a staccare, a ricaricarci, per poi tornare con maggiori energie e rinnovata resilienza sugli obiettivi che abbiamo da portare a termine. Come se la nostra esistenza fosse completabile, simile a un videogioco a livelli o alle righe di un curriculum. Il divertimento e il piacere, per loro natura, sfuggono però a questo modus vivendi concentrato sull’obiettivo, dato che nel momento in cui proviamo a piegare questi sentimenti a una precisa funzione, o a un progetto preconfezionato dagli standard sociali, essi non possono che perdere lo slancio vitale proprio di ciò che non dovrebbe tendere a nulla.
Nel corso della storia, intellettuali, filosofi e letterati di tutti i tempi hanno dedicato pagine e pagine all’apparente contraddizione del provare a trovare il valore esistenziale di alcune attività senza scopo, come il gioco. E molte di queste riflessioni, soprattutto in epoca moderna, hanno fatto coincidere divertimento e distrazione, associando il “divertissement”, l’abbandono tipico della dimensione ludica, al tratto caratteristico di una società che si distrae continuamente per fuggire la noia, la riflessione, il pensiero, dato che non ha il coraggio e la forza di soffermarsi sui mali del suo tempo. L’impressione, però, è che oggi siamo passati addirittura a uno stadio successivo di questa condizione, dato che siamo al contempo sempre distratti, ma incapaci di interrompere il nostro affannoso progetto di auto-miglioramento per divertirci.
Il punto, mi pare, è che ora come ora non è il divertimento, inteso come divertissement, a distrarci da ciò che conta nella nostra esistenza. Al contrario, è il modo in cui ci siamo abituati a vivere, ossessionati dal prossimo obiettivo e dalla nuova potenziale versione migliorata di noi stessi, a distrarci dal divertimento, togliendoci il piacere che ne deriva. Così rimaniamo incastrati nell’insofferenza: distratti cronici, ma senza che alcuno di questi divertissements sia davvero piacevole. Incapaci di annoiarci, ma anche di godere delle attività che ci impegnano. Abili nell’evitare di pensare troppo a ciò che ci accade attorno per non rimanerne sopraffatti, ma pur sempre intrappolati in questo stato di sospensione che non ci rende comunque più leggeri e spensierati, non ci avvicina alla felicità.
Per provare a liberarci dallo scacco, allora, forse è troppo pretendere di liberarci in un battito di ciglia da pressioni sociali che ci hanno plasmato per anni, convincendoci a vedere ogni elemento della nostra vita come il tassello di un grande progetto individuale. Ma nessuno ci vieta di lavorare su questo progetto, modificandolo dove serve, per farcelo stare un po’ meglio addosso. Penso alle rivoluzionarie macchine inutili con cui il designer Bruno Munari ha esordito nel panorama futurista milanese degli anni Trenta, quelle che definiva come progetti “che non rappresentano assolutamente nulla” e che per questo sono “congegni ideali grazie a cui possiamo tranquillamente far rinascere la nostra fantasia, quotidianamente afflitta dalle macchine utili”. Prendendole come spunto di un progetto esistenziale alternativo potremmo provare, in sostanza, a immaginarci anche come macchine inutili, che non devono per forza rappresentare un esempio di successo o realizzazione, che non valgono in quanto efficienti e produttive, che non hanno bisogno di funzionare come le macchine utili. Quello che dobbiamo tentare di riacquisire tra le nostre aspirazioni progettuali, infatti, è la capacità di accogliere la spontaneità e la fantasia che muovono il divertimento, rivalutando tutte quelle attività che sono appunto autoteliche, e non “oscurate” dall’avere uno scopo preciso.
Il tentativo di superare, o almeno di depotenziare il mito della superefficienza, della necessità di programmare tutto, anche i momenti di svago e le emozioni, implica infatti un’opera di rigenerazione socio-emotiva, che ci aiuti a ridurre l’enfasi che ancora poniamo su una visione socialmente standardizzata di realizzazione personale e di successo, continuando a mettere in secondo piano quella personale che ognuno di noi ha. Così come implica la necessità di allontanarci dall’uso dell’efficienza e della produttività come indicatori del nostro valore individuale. Recuperare una prospettiva che valorizzi il divertimento come qualcosa di significante per la nostra vita vuol dire infatti mettere in discussione una serie di imperativi sociali, e non portare avanti un semplice atto di ribellione del singolo.
E vuol dire soprattutto iniziare con il chiedersi, a partire dal progetto che tanto affannosamente portiamo avanti, se tutta questa crescita personale, questo auto-miglioramento, questa corsa all’ottimizzazione del tempo e al rifiuto delle presunte attività inutili porti davvero a uno scopo che ci soddisfa. Perché se proprio sentiamo il bisogno di progettarci come una macchina utile, utilissima, rinunciando però a tutto quello che nella nostra vita è divertimento, gioco, svago, fantasia, piacere, vale la pena di domandarsi in che senso questo possa rappresentare un miglioramento, e per chi.
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