Trump, Zelensky e l’Europa sotto le volte di San Pietro
Tra la Porta Santa e la Pietà di Michelangelo, con i testimoni a osservarli dall’altro lato della basilica di San Pietro, là dove si trovano il Battistero e l’altare di San Girolamo nel quale giacciono le spoglie di Papa Giovanni. I simbolismi si sprecano e non potrebbe essere altrimenti. La morte di Papa Francesco ha […]

Tra la Porta Santa e la Pietà di Michelangelo, con i testimoni a osservarli dall’altro lato della basilica di San Pietro, là dove si trovano il Battistero e l’altare di San Girolamo nel quale giacciono le spoglie di Papa Giovanni. I simbolismi si sprecano e non potrebbe essere altrimenti. La morte di Papa Francesco ha trasformato immediatamente Roma nel palcoscenico della politica internazionale, ben prima di quanto si auspicasse Giorgia Meloni con l’invito rivolto a Trump nella sua visita a Washinghton di due settimane fa.
La basilica di San Pietro è stata il teatro del primo dialogo tra Trump e Zelensky dopo la conferenza stampa e il litigio in mondovisione. Un litigio che ha avuto enormi conseguenze tra cui l’accelerazione nella presa di consapevolezza, soprattutto tra alcuni paesi europei, della necessità di dotarsi di strumenti comuni, diplomatici e più largamente strategici, per poter svolgere un ruolo nel conflitto Russo-Ucraino e reggere ai venti della diplomazia muscolare del presidente Trump.
Ma cosa si sono detti nel merito i due leader? La Casa Bianca definisce il breve colloquio come “costruttivo”. Se da una parte Trump insiste nel far intendere che la sovranità sulla Crimea sia ormai un nodo su cui l’Ucraina deve cedere, d’altro canto, nelle ore successive al colloquio, si è espresso duramente anche su Putin mettendo in dubbio la sua reale volontà di raggiungere un accordo. Ha infatti enfatizzato la propria delusione per una strategia militare Russa estremamente aggressiva che non ha accennato nei giorni scorsi ad attenuarsi.
“Sono rimasto molto deluso dal fatto che i missili volassero dalla Russia”, “Voglio che Putin smetta di sparare, si sieda e firmi un accordo, la faccia finita” , queste, nelle ore successive all’incontro, le frasi pronunciate dal presidente americano che ha contestualmente ridimensionato a un semplice scambio di vedute il colloquio burrascoso con Zelensky della Casa Bianca di fine febbraio. Dal punto di vista del linguaggio si tratta di un leggero ma significativo spostamento verso una narrazione della guerra e della dinamica in corso più affine alla percezione Ucraina e di gran parte dell’occidente negli anni del conflitto. Un fatto non scontato per un presidente che fin’ora, anche nei mesi di campagna elettorale, non aveva mai discusso pubblicamente e con questi toni della strategia russa e dell’eventuale riluttanza del Cremlino a una tregua o a un negoziato.
Per valutare la reale portata pratica del vertice improvvisato di San Pietro occorrerà aspettare le prossime mosse degli attori in campo. Già nell’immediato non è però da escludere che un riavvicinamento tra USA e Ucraina nella gestione delle trattative, e le sfumature più dure di Trump verso la Russia, possano aver influenzato, almeno parzialmente, la volontà del Cremlino di rilanciare un canale negoziale, come emerso nel colloquio telefonico tra il segretario di Stato americano Rubio e il ministro degli Esteri Russo Lavrov. Trump si è infatti dimostrato capace di repentini cambiamentitattici nel perseguire i propri fini e la stessa Federazione Russa potrebbe non volersi nuovamente trovare di fronte a un occidente pronto ad allungare il conflitto. La distanza rimane estremamente ampia sia sul destino dei territori occupati sia, soprattutto, sulle garanzie per la sicurezza Ucraina ma, mentre la guerra continua a imperversare anche a colpi di propaganda riguardo all’occupazione dell’oblast di Kursk, sembrano ristabilirsi le premesse minime per un’iniziativa diplomatica complessiva.
La posta in gioco è molto grande e va ben oltre la specifica situazione ucraina. Le due superpotenze intrecciano i propri interessi nello scacchiere mondiale anche in altri scenari e, col mutare del focus americano verso una scala di priorità più definita che vede al primo posto il contenimento della Cina, tutt’altro che secondario anche per il Cremlino, i temi delle trattative saranno inevitabilmente più ampi.
E l’Europa? Seppur non attraverso le proprie istituzioni classicamente intese, il vecchio continente sembra battere un colpo. E’ stato proprio in seguito alla celeberrima conferenza stampa dello Studio Ovale che, in un’ottica di rinnovata garanzia per l’Ucraina e nel timore di una totale esclusione della stessa dalle trattative di Pace, Starmer e Macron, con i vertici di Londra e Parigi, hanno lanciato l’idea di una “forza di garanzia” Europea per il post-conflitto: la cosiddetta coalizione dei Volenterosi.
Fino a qualche settimana fa questa iniziativa sembrava prevalentemente, se non unicamente, inserirsi nell’ottica di un piano europeo di complessiva e maggiore capacità operativa in uno scenario meno “americano”. Di tre giorni fa’ la notizia che i funzionari Usa avrebbero aperto alla fornitura di intelligence e supporto logistico per militari britannici e europei impegnati a garantire un accordo di pace in Ucraina via terra, aria e mare. L’ingresso americano a supporto dell’iniziativa franco-inglese potrebbe rimescolare di molto le carte, sia per quanto riguarda gli equilibri di un futuro possibile assetto di pace, sia per rilanciare una partnership Atlantica su nuove basi. A insistere per questo passo, secondo il quotidiano inglese Telegraph, sarebbe stato proprio lo stesso Starmer. Un fatto che non stupisce dato che, stante lo storico riavvicinamento strategico all’Europa nonstante la Brexit, resta fondamentale per il Regno Unito la “relazione speciale”.
Chi sin dall’inizio ha provato a ridimensionare ogni iniziativa europea è stata invece la premier Italiana Giorgia Meloni. Pur di non scontentare l’ondivago alleato Trump la premier, in contrapposizione all’idea di una forza europea di sicurezza, aveva infatti proposto di far ricadere le future garanzie Ucraine sotto l’articolo 5 della Nato. Un modo scaltro di ricondurre più solidamente nella podestà statunitense la decisione finale e di far rientrare a qualunque costo ogni sforzo europeo nella cornice della strategia della presidenza americana. Una posizione che appare ormai estremamente debole soprattutto se il Regno Unito e l’intera coalizione dei Volenterosi avranno definitivamente successo nell’approccio esattamente opposto: portare gli Stati Uniti stessi a sostenere una iniziativa che parte dall’Europa.
Iniziativa nella quale per l’Italia, prigioniera dell’attendismo reverenziale verso Trump, rischia di diventare più complesso ritagliarsi un ruolo, come anche la dinamica dei diversi colloqui avvenuti nella basilica di San Pietro sembra plasticamente riflettere.I fili di tutta questa intricata matassa, per un giorno, si sono intrecciati sotto le imponenti volte della basilica di San Pietro, al cui cospetto Trump e Zelensky, protesi l’uno verso l’altro, sono sembrati improvvisamente piccolissimi. E pensare che nemmeno il presidente ucraino aveva cominciato con il piede giusto il proprio rapporto col defunto Papa Francesco.
La potenza silenziosa e l’autorevolezza del Vaticano, la solennità della basilica centro della Critianità e lo slancio universale del messaggio della Chiesa sembrano però aver aiutato a riaccendere una piccola luce di speranza verso il dialogo. Sarà il proseguio o meno di questo spirito nel tempo a dirci se il seme piantato durante i funerali del Sommo Pontefice potrà dare qualche frutto e interrompere quella che Francesco definì “La guerra mondiale a pezzi”; il tempo che, come ha ricordato il Patriarca Latino di Gerusalemme, non appartiene a un solo punto di vista ma è anche dell’ “altro” e, dunque, bisogna saperlo aspettare, seppur nelle proprie ferme convinzioni.
In questa attesa un auspicio: che l’Europa, nelle forme più integrate possibili, riesca a rendersi soggetto e non oggetto della storia.