Shopping di Pechino in Italia. La moka Bialetti parla cinese. Ma la politica frena gli affari
La storica azienda ceduta a Nuo Capital, che fa capo a Stephen Cheng. Dal boom di operazioni del 2017 al massiccio ricorso al Golden Power

Roma, 17 aprile 2025 - La Moka italiana finisce nelle mani del Dragone. Bialetti, lo storico produttore della macchina espresso per il caffè, ennesimo simbolo del Made in Italy che vola all’estero, passa alla lussemburghese Nuo Capital, che fa capo al magnate cinese Stephen Cheng. La Borsa premia l’operazione con un più 61 per cento, in attesa del delisting.
Difficile valutare a oggi se l’operazione si rivelerà un’acquisizione una tantum di un brand italiano noto in tutto il mondo o se si tratta, alla luce del drastico cambio della bussola dei commerci mondiali per effetto dei dazi di Trump, di un nuovo segnale dell’interesse e della strategia cinese verso la Penisola, dopo il rallentamento successivo al nostro ritiro dal controverso Memorandum d’Intesa sulla Belt and Road Initiative (Bri, nota come nuova Via della Seta) deciso dal governo Meloni e al ricorso massiccio al Golden Power. Uno studio di Kpmg del luglio del 2023 indica che in 12 anni (2010-2022) le operazioni di fusione e acquisizione da parte della Cina nel Paese sono state 147 per 24,9 miliardi.
Nel 2022 il mercato si è ridotto a un volume di un terzo dal 2017, anno record per numero di operazioni: 22 per 1,51 miliardi. Negli anni considerati, prima del rallentamento delle iniziative, le acquisizioni dei cinesi in Italia si sono rivolte su due settori, quello dei beni di consumo-retail e l’industria. Ma i tentativi hanno riguardato anche le infrastrutture. Se passiamo dai numeri ai settori, uno degli ambiti più significativi è quello portuale. Nel 2016, la China Ocean Shipping Company (Cosco), uno dei giganti mondiali del trasporto marittimo, ha acquisito il 40% del terminal container del porto di Vado Ligure, vicino a Savona. Mentre restano in piedi i tentativi di trovare accordi con Trieste, Genova, Venezia. Nel settore manifatturiero, il caso Pirelli è emblematico. Nel 2015, la ChemChina ha acquisito il controllo della storica azienda milanese, uno dei principali produttori mondiali di pneumatici. Negli ultimi anni il quadro si è complicato. Dopo la fusione tra ChemChina e Sinochem, altro colosso statale cinese, la nuova entità ha assunto il controllo indiretto di oltre il 37% di Pirelli.
Nella fase attuale, con le crescenti e gravi tensioni tra Usa e Cina, Pirelli si trova a gestire un delicato equilibrio tra le sue ambizioni globali e lo sviluppo del contesto geopolitico in atto, cercando soluzioni che le permettano di mantenere e sviluppare la sua presenza nei mercati chiave. Altro caso affrontato in questo ambito fin dagli anni scorsi è quello relativo alla partecipazione del 35 per cento della State Grid Corporation of China, la più grande utility elettrica al mondo, in Cdp Reti, la società controllata da Cassa Depositi e Prestiti che detiene partecipazioni strategiche in importanti società italiane del settore energetico, tra cui il 29,85% di Terna, il 31,35% di Snam e circa il 26% di Italgas. Il patto parasociale è stato rinnovato automaticamente alla fine di novembre 2023. Il governo italiano non ha posto condizioni specifiche sul rinnovo, in quanto l’investimento di Sgcc è considerato di natura finanziaria e non comporta un’influenza diretta sulla gestione operativa delle società partecipate.
Eppure, se da un lato è cresciuto il ricorso al Golden Power, dall’altro, come ha osservato Luca Picotti, avvocato autore de La legge del più forte (Luiss), si continua ad auspicare di attirare investimenti cinesi. Un’apparente contraddizione che “va letta alla luce del paradosso della geopolitica della protezione, come è stato battezzato da Alessandro Aresu: ossia, da un lato si auspica investimenti e apporti di capitale per dare ossigeno all’economia; dall’altro si pretende al contempo di scrutinarli e condizionarli o bloccarli tramite strumenti giuridici come il Golden Power”.