Rinaldi: i Dazi di Trump amara Medicina per curare l’Economia malata

Il professor Antonio Maria Rinaldi spiega ai radioascoltatori, in modo semplice e chiaro, perché i dazi di Trump fossero un male necessario, non più rinviabile per gli USA L'articolo Rinaldi: i Dazi di Trump amara Medicina per curare l’Economia malata proviene da Scenari Economici.

Apr 9, 2025 - 10:08
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Rinaldi: i Dazi di Trump amara Medicina per curare l’Economia malata

In mezzo a tanta confusione sul tema dei dazi imposti dagli USA a tutto il mondo , il Professor Antonio Maria Rinaldi interviene su RadioRadio mettendo un po’ di chiarezza sul tema con parole chiare e comprensibili e tutti.

L’intervista, affronta un tema complesso e spesso soggetto a interpretazioni superficiali: la politica dei dazi implementata dall’amministrazione Trump. Lungi dal liquidare la mossa come un atto impulsivo o irrazionale (“Trump è un pazzo” come si sente spesso dire nel mainstream), Rinaldi si propone di svelare la logica economica e politica sottostante, una logica profondamente radicata nelle promesse elettorali e nelle dinamiche della globalizzazione contemporanea.

L’analisi del professore si articola attorno ad alcuni punti chiave che mirano a fornire una comprensione più sfumata e contestualizzata delle ragioni che hanno spinto gli Stati Uniti ad adottare misure protezionistiche.

Il punto di partenza fondamentale dell’argomentazione di Rinaldi è che la politica dei dazi non nasce dal nulla, né da un capriccio momentaneo. Essa è, al contrario, la diretta conseguenza di una precisa promessa fatta da Donald Trump durante la sua campagna elettorale: riportare la produzione industriale e i posti di lavoro negli Stati Uniti (“reshoring”). Questa promessa rispondeva a un malessere diffuso, generato da decenni di delocalizzazione produttiva. Negli ultimi 25-30 anni, spiega Rinaldi, numerose imprese americane hanno spostato le loro fabbriche all’estero, attratte da costi di produzione significativamente inferiori, in particolare per quanto riguarda la manodopera.

Questo fenomeno ha provocato quella che Rinaldi definisce una “desertificazione” del tessuto industriale americano, con la chiusura di stabilimenti e la perdita di milioni di posti di lavoro ben retribuiti. La situazione statunitense, sottolinea, non è dissimile da quella vissuta anche in Italia e in altri paesi occidentali.

Rinaldi spiega le ragioni economiche della delocalizzazione (es. iPhone, jeans): le multinazionali cercano un vantaggio competitivo abbattendo i costi di produzione in paesi con salari bassissimi e tutele scarse o nulle. Sottolinea pratiche come il lavoro a cottimo e minorile, citando l’esempio di jeans che, prodotti a 1€ in Asia, costerebbero 6€ in Italia.

Secondo Rinaldi, il punto cruciale è che l’enorme risparmio sui costi di produzione ottenuto con la delocalizzazione non va a vantaggio del consumatore. Le aziende mantengono i prezzi di vendita invariati sul mercato occidentale, trasformando il risparmio in maggiori profitti per sé e per gli azionisti. Rinaldi definisce questa situazione una “doppia fregatura”: i lavoratori del paese d’origine perdono il lavoro e i consumatori non beneficiano di prezzi più bassi, mentre le aziende massimizzano i guadagni sfruttando manodopera estera a basso costo.

Rinaldi analizza il quadro macroeconomico globale: molti paesi puntano a surplus commerciali (esportare più di quanto importano), creando squilibri poiché qualcuno deve necessariamente essere in deficit. La teoria economica prevede che questi squilibri si correggano automaticamente tramite i tassi di cambio: la valuta del paese in surplus si apprezza (rendendo le sue esportazioni più care), quella del paese in deficit si deprezza. Rinaldi illustra questo con l’esempio Germania-USA e il caso storico Fiat-VW, in cui la casa italiana conquistava il mercato tedesco per la svalutazione della Lira e la rivalutazione del Marco.

Il punto centrale, però, è che secondo Rinaldi questo meccanismo di riequilibrio tramite i cambi valutari non ha funzionato nella globalizzazione recente, a causa di fattori finanziari e monetari. Gli squilibri, come il deficit USA, sono persistiti.

Di fronte a questo fallimento dei meccanismi “naturali”, Rinaldi interpreta i dazi di Trump come un intervento artificiale e diretto, ma anche inevitabile. Rendendo le importazioni più costose, i dazi mirano a incentivare l’acquisto di prodotti nazionali e a spingere le aziende estere a produrre negli USA per evitare la tassa, creando così posti di lavoro. I dazi sono visti quindi come uno strumento “rozzo” per forzare quel riequilibrio commerciale non avvenuto spontaneamente e proteggere l’economia USA dagli effetti della delocalizzazione.

Eccovi in video dell’intervista:

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Testo Integrale dell’Intervista al Professor Rinaldi

Si sente parlare dei dazi di Trump: alcuni lo considerano un pazzo, altri lo ritengono bravo. Cerchiamo di fare chiarezza. Trump sta agendo in questo modo per un motivo estremamente semplice, ma che non sento spiegare chiaramente da nessuno. Dobbiamo capire perché, all’improvviso, un’amministrazione americana decide di cambiare le regole del gioco. Non è che Trump si sia svegliato una mattina e, per antipatia, abbia deciso di imporre dazi a tutti. Lo ha fatto per una ragione precisa, che è stata peraltro alla base della sua campagna elettorale.

Trump ha vinto le elezioni promettendo agli americani che, se eletto, avrebbe fatto il possibile per riportare la produzione di beni sul territorio degli Stati Uniti. Negli ultimi 25-30 anni, infatti, gran parte della produzione era migrata verso altri paesi. Questo ha causato una desertificazione del sistema industriale americano: le imprese hanno chiuso, proprio come è successo anche da noi in Italia. Le aziende sono andate a produrre altrove, dove trovavano maggiori convenienze economiche.

È ovvio che se un’impresa chiude negli Stati Uniti, smette di pagare gli stipendi americani e apre in Cina o in India, dove i salari e i costi infrastrutturali sono molto inferiori, ottiene un enorme vantaggio competitivo. Prendiamo l’esempio dell’iPhone: perché viene prodotto in Cina? Perché i calcoli hanno dimostrato che produrlo lì comportava un vantaggio significativo rispetto alla produzione negli Stati Uniti.

Ma attenzione, qui c’è il punto chiave: se una grande multinazionale come Apple (ma vale per qualsiasi altra) ottiene un vantaggio riducendo i costi di produzione del 20, 30 o 40%, non abbassa il prezzo di vendita sul mercato. Il vantaggio rimane interamente all’azienda, non viene trasferito al cittadino.

Facciamo un esempio per la “signora Maria”: quando va al mercato a comprare un paio di jeans economici per il figlio o il nipote a 15 euro, quei jeans, prodotti in India o in Cina, all’azienda costano forse non più di 1 euro. Perché? Perché in quei paesi esiste ancora il lavoro a cottimo, viene sfruttata manodopera minorile e non ci sono gli oneri sociali che abbiamo noi. Il lavoro a cottimo, pagato a pezzo e non a ore, è una forma di sfruttamento in cui intere famiglie lavorano senza sosta per raggiungere la quota di produzione richiesta. Prima finiscono, prima vengono pagati, capite il livello di sfruttamento.

Quegli stessi pantaloni, quando venivano prodotti in Italia, non costavano 1 euro all’azienda, ma magari 6 euro. Per venderli sempre a 15 euro, l’azienda aveva un margine molto più limitato. Producendoli a 1 euro ma vendendoli sempre a 15, l’azienda aumenta enormemente i propri margini, facendo contenti i suoi investitori, spesso disinteressati alle conseguenze sociali come la disoccupazione o lo sfruttamento del lavoro. Magari queste persone hanno azioni di tali aziende e poi manifestano in piazza per i diritti dei lavoratori.

Quindi, questa delocalizzazione senza regole non solo ha creato disoccupati nei paesi occidentali, ma ha anche permesso alle aziende di aumentare i propri profitti a scapito dei lavoratori, sia quelli che hanno perso il lavoro qui, sia quelli sfruttati altrove. Il differenziale di utile se lo sono messo in tasca le aziende.

Ritorniamo agli Stati Uniti e introduciamo un concetto semplice legato alla globalizzazione spinta e senza regole certe. Si è creato un modello economico in cui tutti i paesi aspirano a produrre più di quanto consumano, per poter esportare. La ricchezza di un paese sembra misurarsi sulla differenza tra export e import (surplus commerciale). Ma se tutti vogliono esportare più di quanto importano, a chi vendono questo surplus? Dovrebbe esserci un equilibrio: io produco ciò che so fare meglio e lo vendo a te, tu produci ciò che sai fare meglio e lo vendi a me.

Quando si crea uno squilibrio, come insegnano i primi corsi di economia, dovrebbe intervenire un meccanismo di riequilibrio naturale attraverso i tassi di cambio. Facciamo un esempio: la Germania ha un enorme surplus commerciale, esporta molto più di quanto importa, ad esempio verso gli Stati Uniti. Vende le sue auto (Audi, Volkswagen, Mercedes) e riceve in cambio dollari. Una parte di questi dollari viene usata per comprare materie prime, ma la maggior parte, essendo valore aggiunto, viene convertita in euro (prima in marchi).

Questa continua vendita di dollari per comprare euro dovrebbe far scendere il valore del dollaro e far salire quello dell’euro. Di conseguenza, i prodotti tedeschi (come le auto) diventerebbero più costosi per gli americani, rendendo meno conveniente comprarli. Se un’Audi arriva a costare il doppio di una Ford, l’americano preferirà la Ford. Ricordate quando la Fiat Uno era tra le auto più vendute in Europa? Non perché fosse la migliore, ma perché, grazie al cambio favorevole della Lira rispetto al Marco tedesco, offriva un ottimo rapporto qualità-prezzo. Il tedesco, invece di comprarsi la Volkswagen, magari comprava la Fiat perché costava la metà e andava bene lo stesso.

Teoricamente, questo meccanismo dovrebbe portare a un punto in cui non è più conveniente per gli americani comprare tedesco, riequilibrando gli scambi. Tuttavia, questo adeguamento automatico tramite i cambi non è avvenuto negli ultimi decenni. Gli squilibri sono persistiti.

Allora Trump ha detto: “Adesso ci penso io”. Vedendo che questo squilibrio commerciale stava danneggiando l’economia americana, ha deciso di mettere i dazi. È un modo per dire: le tue merci costeranno di più sul mio mercato, così gli americani ne compreranno di meno e preferiranno i beni prodotti in America. Oppure, tu, azienda tedesca, se vuoi vendere qui, trasferisci le tue fabbriche negli Stati Uniti e fai lavorare gli americani.


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