La sindrome del cucciolo

Ultimamente, parlare di videogiochi per me è come manipolare una sfera di cristallo sottilissimo, come se parlandone avessi paura di romperlo. Avete presente quei giocattoli fragilissimi che avevamo da bambini, quelli che ci costringevano a non usare per i nostri giochi (pena la rottura certa): ecco, esattamente così. La paura di mettere voti bassi l’ho […] L'articolo La sindrome del cucciolo proviene da Vgmag.it.

Apr 21, 2025 - 12:38
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La sindrome del cucciolo
the witcher 4

Ultimamente, parlare di videogiochi per me è come manipolare una sfera di cristallo sottilissimo, come se parlandone avessi paura di romperlo. Avete presente quei giocattoli fragilissimi che avevamo da bambini, quelli che ci costringevano a non usare per i nostri giochi (pena la rottura certa): ecco, esattamente così. La paura di mettere voti bassi l’ho sempre avuta, perché ho seguito la filosofia “nessuno può fare così male da meritarsi meno di quattro”, e quando in ballo c’è una tecnologia dove si rischia mi è sempre sembrato almeno rispettoso salvare i giochi dagli impietosi gironi infernali del fallimento. Però i giudizi negativi, anzi più precisamente la critica (termine troppo abusato e lontano dal suo significato originale), sono un sacrosanto diritto e dovere di chi come me scrive di questi argomenti: in pratica, e senza scendere troppo nel filosofico, serve a mantenere alto il livello. Nella musica, descrivere come immondizia dei brani triti e ritriti, stroncare di netto fenomeni da baraccone e marionette i cui fili sono saldamente tenuti dalle major mi è stato sempre facile (ora, qualcuno potrebbe pensare che nelle ultime righe io abbia descritto Lucio Corsi: in verità no, ma Lucio Corsi ne è un ottimo esempio). 

Solo recentemente mi sono accorto che in realtà per il videogioco provo la “sindrome del cucciolo”. Se avete mai posseduto un animale sapete benissimo di cosa sto parlando: il nostro “peloso” (termine che vince la classifica del più brutto per definire un animale cane o gatto che sia) per noi è sempre appena nato, anche quando l’età supera la nostra (un cane di dieci anni è un pensionato), continuiamo sempre a trattarlo come un infante. E per il videogioco è la stessa identica cosa, anche se mi rendo sempre più conto che non è un problema solo mio. Infatti, non è più un media nuovo o emergente, ma è tremendamente adulto, e come tutti i fenomeni adulti ha le sue crisi di identità, di struttura, di autorialità. Letto così sembra normale che le Software House (mostri paragonabili a Nestlé o Coca Cola) cerchino di compensare le poche vendite di un fenomeno che si sta asciugando con contributi governativi o cose similari (e poi ti trovi con un samurai etiope in Giappone), perché è il modo più semplice per farlo.  Quando un mezzo di diffusione di massa è così grande, appare chiaro che tutto quello che è mainstream deve essere infilato nel videogioco. Senza essere Cartesio, in due righe è presto dimostrato che, per perpetrare il delitto di cui sopra, l’autorialità deve sparire, perché l’autorialità stessa molte volte è un salto nel vuoto. Essere autoriali oggi è difficilissimo, perché gli autori nuovi che sostituiscono i vecchi (e non mi date del boomer perché è oggettivo… oppure il problema siete Voi) non sono così bravi, hanno una cultura estremamente parziale che non c’entra assolutamente niente con la cultura tipica di qualcuno che fa l’autore per mestiere. Le software house sono strapiene di gente che non sa fare praticamente nulla e che sta lì per fare numero: se non assumi, infatti, si potrebbe ipotizzare che i tuoi ricavi sono fermi al palo. Diciamocelo, su, guardate le foto dei team di venti anni fa e quelle di oggi, ma voi lo comprereste un gioco da facce come quelle? Se un marziano tornasse sulla Terra dove aveva vissuto l’epopea di The Witcher e precipitasse con tutta l’astronave sulla sede di CD Projekt Red, si chiederebbe o no se è finito nello studio di un talent a vocazione emo? Non ci si inventa la professione di autore, non ci si inventa il creatore di mondi, gli autori sono pochi, preziosi e nascono a caso, e lo stesso vale per chi lavora con la grafica, perché vedere sempre le stesse cose vuol dire vivere sempre le stesse emozioni e salire sopra la solita cassa del set dei soliti asset. È deprimente, ma cosa posso sognare in un mondo ridotto così?  Per non parlare dei personaggi in cui dovrei addirittura incarnarmi, e che trovo brutti sia fisicamente (che sarebbe il meno) sia intellettualmente. Ci mancava giusto l’ultimo Dragon Age per toccare il fondo della narrativa videoludica: purtroppo, ho il dubbio che metteranno a lavorare qualcuno in grado perfino di scavare.

 

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