Questi, secondo noi, i migliori film di aprile 2025
Nonostante si parli spesso di crisi della creatività e di insofferenza verso l’infinito numero di sequel e remake, al cinema i film nuovi e originali non riescono a emergere. Forse perché, convinti che il tempo sia denaro, sembra si abbia paura di approcciarsi a storie nuove, che potrebbero deluderci. Eppure, pellicole originali capaci di sorprenderci esistono ancora. Ecco, secondo noi, i migliori film usciti questo mese. L'articolo Questi, secondo noi, i migliori film di aprile 2025 proviene da THE VISION.

Nonostante si parli spesso di crisi della creatività, con una conseguente insofferenza verso l’infinito numero di sequel, remake e declinazioni varie di storie di successo ormai ridotte all’osso, al cinema i film nuovi e originali non riescono a emergere. È come se facessimo fatica ad approcciarci a trame che non conosciamo per paura di rischiare che possano non piacerci, che il tempo impiegato venga sprecato, che l’occasione di svago si tramuti in due ore di noia, una sensazione in cui sappiamo stare sempre meno. È la conseguenza di una società sempre più veloce, in cui le emozioni negative sono messe ai margini e il tempo libero diventa o una performance o una semplice finestra per ricaricarsi e tornare a essere produttivi. Eppure, di storie nuove e originali capaci di sorprenderci ne esistono ancora, anche al cinema. Ecco, secondo noi, i migliori film usciti questo mese.
Queer, Luca Guadagnino
Tra il 1951 e il 1953, lo scrittore statunitense William S. Burroughs iniziò a scrivere uno dei suoi testi oggi più famosi, Queer, mentre si trovava a Città del Messico. Era un periodo estremamente difficile della sua vita: si era rifugiato lì dopo problemi con la legge legati all’uso di droghe e al possesso di armi, e il contesto personale era ancora più drammatico considerato che poco tempo prima Burroughs aveva accidentalmente ucciso la moglie, Joan Vollmer, sparandole durante un “gioco di Guglielmo Tell” finito tragicamente. Queer nasceva così in un momento di crisi personale, segnato da dolore, sensi di colpa e un profondo senso di perdita. Non era solo una storia di desiderio, ma anche un tentativo di Burroughs di confrontarsi con se stesso. Non a caso, più che una storia sul sesso, come spesso è stata definita, è invece una storia sul desiderio, sul bisogno di stare e sentirsi in relazione con l’Altro, sul terrore che nasce quando emerge la possibilità di farlo. Ed è proprio questa sensazione che ne permea la trasposizione cinematografica di Luca Guadagnino, presentata in anteprima all’ultima edizione del Festival di Venezia.
“[Queer] mi sembra la visualizzazione cinetico-pittorica di uno stato d’animo che conosco e che comprendo e che credo ci appartenga. Uno stato d’animo molto doloroso o addirittura, diciamo così, terminale. Cioè l’idea che essere umani significa essere, alla fine di tutto, soli”, racconta Guadagnino, che dopo aver letto il libro a diciassette anni ha sempre desiderato portare sullo schermo l’ossessione romantica del protagonista, William Lee (alter ego di Burroughs, interpretato da Daniel Craig), verso un giovane uomo di nome Eugene Allerton (ispirato a un vero interesse amoroso dello scrittore, Adelbert Lewis Marker). Anche se alcuni critici hanno evidenziato la natura frammentata della narrazione – che però rispecchia perfettamente quella del romanzo –, la pellicola è un’esperienza cinematografica visivamente ed esteticamente ipnotica, emotivamente complessa, in cui il ritmo contemplativo della storia è attraversato da una colonna sonora che mescola elettronica e brani dei Nirvana per risaltare il contrasto con il Messico dell’epoca. Il risultato è una discesa totale in un luogo fuori dal tempo, dominato da quella sensazione di cui Burroughs scriveva nei suoi diari prima di morire: “Quando si vede e si sente, come si può non essere tristi?”.
Love, Dag Johan Haugerud
“Tutti hanno pensieri sulla propria sessualità”, dice lo scrittore e regista Dag Johan Haugerud, “è un tema basilare che può essere esplorato in tanti modi differenti”. Lui, per farlo, ha scelto di realizzare una trilogia, capace di raccogliere una grande attenzione internazionale e dedicata alle complesse sfumature delle relazioni moderne. Sex, presentato nella sezione Panorama della Berlinale, racconta di due amici eterosessuali che ridefiniscono la propria idea di sesso e identità di genere; Love, in concorso all’ultimo Festival di Venezia, esplora il nostro rapporto con la tecnologia nella disperata ricerca dell’amore; Dreams, vincitore dell’Orso d’Oro alla Berlinale, segue l’adolescente Johanne nell’esperienza di un primo amore. Una trilogia dominata da un tono “leggero”, che non vuole essere solo uno stratagemma per smorzare le scene maggiormente drammatiche, ma che ci avvicina di più alla realtà, per quel senso quasi “burlesco” che hanno molte conversazioni serie. Come sono appunto quelle sull’amore, la sessualità, i desideri e la nostra identità.
Ambientato nella contemporanea Oslo, Love segue le vite di Marianne, un’urologa di quarant’anni, e Tor, un giovane infermiere gay. Entrambi lavorano nello stesso ospedale e, durante le traversate notturne in traghetto, iniziano a condividere riflessioni intime sulle loro esperienze amorose e sessuali: Marianne, spinta da un’amica, incontra un geologo divorziato e con dei figli, chiedendosi se sia davvero la risposta ai suoi desideri, mentre Tor utilizza app di incontri per cercare connessioni fugaci con altri uomini, a volte anche solo per conversare. È attraverso i loro scambi che i due esplorano modi alternativi di relazionarsi, distaccandosi dalle convenzioni sociali tradizionali, fino ad arrivare, entrambi, a mettersi in gioco nelle relazioni nel modo in cui lo avrebbe fatto l’altro. Love, così, diventa una riflessione sincera sulle relazioni moderne, capace di esplorare temi come l’identità, la solitudine e il desiderio di connessione in un mondo in continua evoluzione, invitandoci a interrogarsi sui modi con cui entriamo in relazione con l’Altro, e con cui accogliamo l’Altro in noi.
The Shrouds, David Cronenberg
David Cronenberg è un maestro del body horror. Da decenni, esplora con uno stile unico temi come la trasformazione fisica, l’intersezione tra corpo e tecnologia, e le mutazioni psicologiche e corporee. In un periodo di clamoroso ritorno di questo genere cinematografico – basti pensare al successo e al clamore suscitati da The Substance – il suo contributo non poteva mancare.
Dedicato alla moglie Carolyn scomparsa nel 2017, The Shrouds, è un viaggio inquietante attraverso il dolore della perdita, la tecnologia e l’ossessione per la morte. Karsh – interpretato da un intenso Vincent Cassel – è un imprenditore tecnologico che, devastato dalla perdita della moglie Becca, Diane Kruger, sviluppa un sistema chiamato “ShroudCam”: un sudario high-tech dotato di microcamere che trasmettono in tempo reale la decomposizione dei propri cari defunti.
Questa premessa macabra, e per certi aspetti molto irrealistica, serve da pretesto per esplorare temi profondi come il lutto, l’amore e la memoria, ma anche per dare vita a una sorta di thriller politico che incalza la narrazione: le tombe vengono infatti profanate da un’organizzazione misteriosa. La performance di Cassel è intensa, incarna un uomo consumato dal dolore e dalla necessità di mantenere un legame con la moglie ma che allo stesso tempo sa essere un imprenditore fermo e coraggioso. Kruger, nel doppio ruolo di Becca e della sua gemella Terri, offre una rappresentazione sfaccettata della perdita e dell’identità.
La colonna sonora elettronica di Howard Shore – noto, tra le altre cose, per la saga del Signore degli Anelli – contribuisce a creare un’atmosfera inquietante, mentre la fotografia fredda conferisce al film un aspetto austero e claustrofobico. In definitiva, The Shrouds è un’opera che riflette profondamente sul dolore e sulla nostra relazione con la morte, utilizzando la tecnologia come metafora della nostra incapacità di lasciar andare. Pur non essendo la migliore opera dell’82enne canadese, il film rappresenta una testimonianza potente della visione unica di un regista originale come Cronenberg, di cui non ne avremo mai abbastanza.
The Last Showgirl, Gia Coppola
Presentato in anteprima al Toronto International Film Festival il 6 settembre del 2024, e distribuito nelle sale italiane dal 3 aprile 2025, The Last Showgirl, diretto da Gia Coppola, esplora temi come l’invecchiamento, l’identità femminile e la resilienza, offrendo uno sguardo sincero sulla vita delle donne nel mondo dello spettacolo, e segna un momento significativo nella carriera di Pamela Anderson.
La trama segue Shelly Gardner, interpretata proprio da Anderson, una showgirl di Las Vegas che, dopo trent’anni di esibizioni nello spettacolo Le Razzle Dazzle, si trova improvvisamente senza lavoro a causa della chiusura dello show. Affrontando l’incertezza del futuro, Shelly cerca di ricostruire la sua vita, riallacciando i rapporti con la figlia Hannah (Billie Lourd) e con l’amica Annette (Jamie Lee Curtis), ex showgirl e ora cameriera in un casinò.
La regia di Coppola – nipote di Francis Ford Coppola – si distingue per una narrazione intima e visivamente suggestiva, supportata dalla fotografia di Autumn Durald Arkapaw e dalla colonna sonora di Andrew Wyatt. Pamela Anderson offre una performance intensa e toccante, considerata da molti critici come la migliore della sua carriera. La sua interpretazione ha infatti ricevuto numerose candidature a diversi premi, tra cui i Golden Globe, i BAFTA e i SAG Awards. Inoltre, con un budget inferiore ai 2 milioni di dollari, The Last Showgirl ha incassato circa 6,8 milioni di dollari a livello globale, dimostrando che storie autentiche e ben raccontate possono trovare il loro pubblico anche senza grandi produzioni.
Abbiamo bisogno di film come questo, capaci di celebra la forza e la dignità delle donne, così come le ingiustizie e le disparità che sono costrette a subire, offrendo una riflessione urgente sulla vita, le scelte e le seconde possibilità, ma anche sulle responsabilità della società e sull’impatto devastante che spesso ha su di loro.
La solitudine dei non amati, Lilja Ingolfsdottir
La solitudine dei non amati, opera prima della regista norvegese Lilja Ingolfsdottir, è un intenso dramma psicologico che esplora le complessità delle relazioni familiari e la ricerca dell’identità personale. Presentato in anteprima mondiale al Festival di Karlovy Vary nel 2024, dove ha ricevuto cinque premi, tra cui il Label Award, il film arriverà nelle sale italiane il 30 aprile 2025, distribuito da Wanted.
La protagonista, Maria (interpretata da Helga Guren), è una donna di quarant’anni che si trova al limite delle sue forze, divisa tra le responsabilità di crescere i figli e una carriera professionale in crisi. Il marito, Sigmund (Oddgeir Thune), è spesso assente per lavoro, lasciando Maria a gestire da sola il peso quotidiano. Quando Sigmund torna da un lungo viaggio, una serata qualunque si trasforma in un confronto acceso, rivelando le crepe di una relazione un tempo felice ma ora non più. Nonostante gli sforzi disperati per salvare il loro matrimonio, Sigmund le annuncia la decisione di divorziare, costringendo Maria a confrontarsi con le sue paure più profonde e a trovare una strada per ricostruirsi, una crepa alla volta.
Il film si distingue per la sua narrazione intima e realistica, che affronta in maniera intima temi universali come l’incomunicabilità, la solitudine, l’indipendenza, l’identità e la capacità di resistere, reagire e adattarsi. La regia di Ingolfsdottir, supportata dalla fotografia di Øystein Mamen, offre uno sguardo sincero sulla vita quotidiana e interiore delle donne nel mondo contemporaneo. La performance di Helga Guren è intensa e toccante e incarna con autenticità i conflitti e le emozioni che vive Maria. La solitudine dei non amati è un film che invita alla riflessione sulla fragilità delle relazioni e sulla forza necessaria per sopravvivere a un abbandono, ritrovando sé stessi quando l’amore sembra svanire insieme al nostro senso di identità.
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